Bologna Fotografata di Giuseppe Savini

Giuseppe Savini su Bologna Fotografata

Di seguito l’introduzione al catalogo della bellissima mostra “Bologna Fotografata. Persone, luoghi, fotografi”, a cura di giuseppe Savini, il curatore. Il catalogo è un pezzo di storia dei bolognesi e dei suoi fotografi fino al 1994, quando furono fatti gli ultimi scatti analogici. Ricordo ancora quando i colleghi bolognesi giravano con le prime macchine digitali.

Un catalogo che attraverso le persone ripercorre la storia della città: la Bologna tra Ottocento e novecento, la grande guerra, il fascismo, la Bologna tedesca, il boom, i movimenti degli anni”70,la strage della stazione ma anche i canali, l’abbattimento delle mura, le facce da bar del Ciccio. C’è anche un interessante fotoconfronto che merita di essere visto in mostra. Vi lascio al testo di Giuseppe Savini di seguito👇

La città è sempre quella, Bologna, e gli anni che si attraversano sono i medesimi, dalla fine di un secolo, l’Ottocento, alla fine di quello successivo.

Nuovamente Bologna fotografata, come già titolava la mostra allestita nel 2017, nuovamente il Sottopasso come sede, ma la narrazione di questa nuova esposizione, pur essendo simile in tanti suoi aspetti a quella precedente, è in realtà differente.

All’esperienza nata in quella occasione si è affiancata la possibilità di disporre di nuovi fondi fotografici acquisiti ultimamente dalla Cineteca; ad essi vanno poi aggiunti i tanti archivi pubblici e privati che, grazie alle collaborazioni attivate per la realizzazione del portale Bologna fotografata, ci hanno fatto scoprire inediti sguardi sulla città.

Una visione più ampia, più corale ed anche più composita. È stata questa l’idea per una nuova mostra che, partendo dalle tracce della precedente, potesse dare spazio alle tante e differenti tipologie di immagini che abbiamo ritrovato.

Un nuovo racconto compiuto utilizzando i ritratti, le foto di cronaca, le immagini pubblicitarie, le schede della questura, gli album di famiglia… nella convinzione che ognuno di questi documenti potesse avere, a suo modo, la capacità di aggiungere una piccola ma significativa parte alla storia di Bologna.

A fianco delle immagini iconiche, rimaste a scandire i tempi storici del racconto, è rappresentata una quotidianità fotografica della città composta da facce e da angoli di strade, da pose e da interni casalinghi.

Abbiamo voluto che fossero le immagini a raccontarci la storia e non che apparissero come mere illustrazioni di un racconto già fatto; ed è per questo che un’attenzione particolare è riservata a coloro che hanno realizzato questo grande archivio della città, i fotografi, con le loro più differenti attitudini, capacità e volontà.

Lasciamo dunque a loro il compito di suggerirci le ragioni e i modi che li portarono a scegliere come e quale Bologna fotografare.

Nel panorama dei fotografi bolognesi professionali di fine Ottocento le tre sorelle Angiolini, le mademoiselle Angiolinì, si ricavarono un ruolo d’eccellenza come autrici di carte de visite, come ritrattiste della buona società, specie dopo che la Regina Margherita decise di farsi fotografare nel loro atelier di via Castiglione; il pittore Pietro Poppi, divenuto poi titolare di uno degli studi fotografici più importanti della città, dipingeva nuvolette sui cieli delle sue prime lastre fotografiche.

Erano parecchi i professionisti che a cavallo del secolo gestivano attività fotografiche in città e a questi si erano aggiunti via via i primi dilettanti. Amatori facoltosi che potevano permettersi di coltivare una passione come la fotografia: sono loro a raccontarci con gusto pittorico le prime villeggiature sui colli, la vita familiare, e, nel momento in cui le macchine cominciarono a permettere scatti più veloci, la vita ‘rubata’ lungo le strade e le piazze della città. Fra questi anche Giuseppe Michelini, imprenditore agrario, o Olindo Guerrini, primo presidente del Circolo Fotografico, autore dell’immagine di copertina e fra questi anche il giovane grafico e fotografo Guido Malagola Cappi, che nei primi anni del Novecento incorniciava graficamente i suoi ritratti fotografici come fossero tele del Settecento.

Professionisti, amatori, artisti ma anche tecnici; la fotografia utilizzata a fine esplicitamente documentativo e di supporto tecnico aveva avuto in città un precedente nella collaborazione fra Pietro Poppi e l’architetto Alfonso Rubbiani. Giuseppe Cavazza è il primo fotografo del Comune di Bologna. Dilettante e autodidatta, assunto come economo e destinato all’Ufficio V Edilità e Arte, utilizzò le sue capacità fotografiche per integrare le pratiche del suo lavoro. Dobbiamo a lui la bella e importante serie di immagini della cerchia muraria prima del suo abbattimento. Un lavoro prezioso, fatto con intenti descrittivi e documentari, ma nel quale Cavazza si concede sempre il giusto e misurato spazio per una nota artistica.

Storie di fotografi come quella di Luigi Marzocchi il molinellese – divenuto nel 1915 operatore del Reparto fotografico del Comando supremo – il quale, a guerra finita, dopo aver scattato foto lungo tutte le trincee italiane, aprì una ditta che vendeva visori con immagini stereoscopiche a soggetto militare.

Non ebbero successo, nessuno aveva più voglia di vedere la guerra.

Ma anche storie di fotografie, come le tante che divennero l’ultimo ricordo lasciato da giovani soldati in partenza per il fronte. La piccola borghesia ed anche le classi meno abbienti si facevano ritrarre nei nuovi studi fotografici a buon mercato dove i fondali non erano bellissimi, ma vi era la possibilità di usare per la ripresa una collana, un ombrellino, un bastone, un colletto pulito della camicia.

Negli anni Venti-Trenta le prime macchine a basso costo entrano nelle case della borghesia per immortalarne i rituali: i pranzi di famiglia, la fidanzata, i giardini Margherita dove si gioca a polo, il campo da tennis della Virtus, la gita fuori porta, la gara automobilistica sulla Via Emilia.

Si familiarizza con la macchina fotografica, si comincia a sorridere di fronte all’obiettivo. Nel proliferare di immagini pubbliche e private, agli album della famiglia borghese si accompagna via via la sterminata produzione ufficiale voluta dal regime. Sono promosse importanti campagne fotografiche realizzate da troupe attrezzate come quelle della ditta Villani; contemporaneamente i fotocronisti degli studi Pasquini, Camera e Bolognesi Orsini illustrano il racconto quotidiano della vita fascista nelle sue diverse accezioni sportive, culturali, ludiche, marziali e celebrative.

Nino Comaschi, fotografo di cronaca, indossa la divisa per seguire gli eventi ufficiali, ma gira in borghese alla ricerca della ‘foto notizia’ per il “Carlino Sera”; è in queste occasioni che scatta le sue foto più belle, quelle di una Bologna quotidiana, un po’ malmessa, fotografata a parata finita. Aurelio Bonori, nel suo studio in Via Montegrappa, esegue ritratti di pregio agli attori che passano in città e ai cittadini che vogliono passare per attori.

I fascicoli dei Sovversivi, coloro che vengono fermati e schedati dalla polizia fascista, sono una straordinaria galleria di volti e di vicende, spesso tristi e banali, ma a volte anche tragiche ed eroiche, che dicono tanto sul vivere di quegli anni.

Il medico Filippo d’Ajutolo, un dilettante di qualità, non è attirato dai concorsi fotografici, al pari di tanti fotografi della borghesia, ma è più interessato a documentare la città: una nevicata eccezionale, le strade di un quartiere destinato a sparire, la geografia dei canali e, durante la guerra, la distruzione dei bombardamenti e le tragedie di quei momenti.

Sono poche le foto dei primi anni Quaranta, rare se messe a confronto con l’ampia produzione degli anni Trenta. La guerra, le restrizioni, le poche occasioni e forse anche la poca voglia di ricordare e fissare quei giorni: sono foto di soldati in licenza, gruppi sparsi, una domenica con la fidanzata, le ultime gite, le ultime occasioni conviviali. La ditta Villani lavora per il Comune al fine di elogiare  l’efficienza con cui sono stati approntati i rifugi antiaerei ed è stata garantita garantita ospitalità agli sfollati. Il servizio sulle scuole Manzolini, le cui aule ospitano le famiglie scese in città per sfuggire al conflitto, è un bellissimo documento storico e fotografico.

Passa la guerra, finisce il regime, Bologna è liberata. Sarà per la scarsità delle disponibilità dell’epoca o per un segno di normale continuità ma spesso le camicie nere dell’ultima adunata e gli americani in piazza Maggiore condividono i trentasei scatti di un unico rullino nella macchina del fotocronista che ora è diventato fotoreporter.

Walter Breveglieri lavora per “Il Resto del Carlino” e fonda l’agenzia FotoWall. Enrico Pasquali compera una Leica usata e, assieme a Ermenegildo Zuppiroli, già stampatore della ditta Villani, apre una agenzia a Medicina. Aldo Ferrari intraprende la sua carriera giornalistica iniziando a raccontare con le immagini le tante facce della Bologna di quegli anni. Aurelio Bonori organizza a Palazzo del Podestà la Mostra fotografica internazionale del ritratto che, dal 1947 al 1955, vedrà la partecipazione dei più importanti fotografi dell’epoca. Attorno al Circolo Fotografico Bolognese gravita il mondo artistico legato alla fotografia: un già attempato Francesco Giovannini, Giulio Parmiani, Nino Migliori… Sono gli anni dei gruppi fotografici, dei concorsi, delle esposizioni internazionali alle quali i bolognesi partecipano con talento e soddisfazione.

Nino Comaschi si dedica quasi esclusivamente a fotografare il Bologna; non aspetta quasi neanche la fine della partita per correre a casa, sviluppare, stampare e spedire ‘fuori sacco’ (consegna diretta sul binario) le foto a “Calcio Illustrato”.

Negli album di famiglia trovano posto le automobili, le lambrette, le televisioni, i cagnolini, ma sono sempre meno quelli che si dedicano a comporre queste saghe familiari; via via i dilettanti più progrediti preferiscono le diapositive oppure, potendoselo permettere, utilizzano il Super8 per raccontare la storia di famiglia.

Nel 1954 il bolognese Mario Fantin aveva seguito, come operatore, gli scalatori italiani sul K2, da allora, per mestiere, gira il mondo a seguito di spedizioni alpinistiche e scientifiche filmando, raccontando e fotografando quello che vede. In agosto però Fantin preferisce rimanere a Bologna ed è la città vuota l’oggetto delle sue esplorazioni e dei suoi scatti: più che la malinconia dell’estate in città sembrano essere la pulizia e la ‘naturalezza’ degli scorci urbani ad incuriosirlo.

Sono appena iniziati gli anni Sessanta quando esce il libro Le bolognesi; testi di Riccardo Bacchelli e altri e foto di Antonio Masotti. Masotti viene dai circoli fotografici e dai concorsi, ma le sue foto sembrano avere uno spirito in più, una maggiore freschezza. Nelle sue immagini si guardano le luci dei portici, ma si è distratti dalla ragazza che li attraversa, si seguono le donne per strada per poi studiare lo scorcio dentro alle quali sono riprese. “Fra le donne scelga volti non provvisori” aveva consigliato Bacchelli al fotografo.

Con gli anni Settanta c’è un modo meno ingenuo di pensare, vengono meno la curiosità e lo stupore coi quali la fotografia era fatta o ‘subita’ fino a pochi anni prima. L’onda lunga del boom si è arenata, la spensieratezza lascia il posto all’impegno: lo si vede anche da come le persone posano davanti alla macchina, senza più imbarazzi o recite e divertimento, senza le corna fatte al compagno di fianco. Si va diradando l’interesse per il racconto della quotidianità, ne sono meno incuriositi i protagonisti stessi, i babbi e gli zii fotografi, maanche i professionisti che alle foto di costume o di ambiente preferiscono quelle legate ai fatti, a temi specifici di attualità, denuncia, politica, impegno.

Le strade della città, svuotate appositamente da ogni elemento di disturbo, sono fotografate da Paolo Monti per una campagna voluta dal Comune che cerca di ritrovare, in questi scatti, la pulizia delle quinte all’interno delle quali si recita la vita cittadina. Nello studio di Villani in piazza Santo Stefano c’è ancora la sala di posa, alla stazione e nel Sottopasso sono comparse già da alcuni anni le cabine per le fototessere. Quattro scatti cento lire.

Gli amatori frequentano meno i circoli e i concorsi, ma si nutrono di tante immagini e navigano fra impegno, cronaca, creatività e memoria delle vicende che stanno attraversando. N.G. Mazzanti, di cui non conosciamo nulla oltre alle iniziali del nome, al cognome e ai suoi album, gira per il centro scattando belle foto con malinconia e compostezza, mentre Marco Caroli – grafico, designer e fotografo – racconta a colori una città e un mondo di personaggi strampalati che nel giro di poco sarebbe stato messo da parte dai fatti di quegli anni.

I fatti sono quelli del 1977, la cui immagine, vista dall’interno del movimento che ne fu protagonista, ci è raccontata da Enrico Scuro, un tarantino di venticinque anni venuto a studiare fotografia al Dams. Cronaca e creatività.

A fotografare quella Bologna c’è anche Daniela Facchinato la cui attenzione per il ritratto la porterà a raccogliere una lunga e bella galleria di donne e uomini bolognesi che, negli ultimi decenni del secolo, hanno frequentato il mondo della moda, dell’arte e dello spettacolo.

È agli ultimi fotografi analogici che affidiamo il compito di narrare la fine del secolo, una fine del secolo che abbiamo voluto considerare non come quella arrivata con il 2000, ma quella annunciata dalla messa in commercio della prima macchina digitale nel 1994.

Il fotoreporter Paolo Ferrari, con la sua infinita produzione di immagini, scandisce cronologicamente questi ultimi quattordici anni seguendo passo passo fatti e protagonisti della vita in città: la vittoria dei mondiali di calcio, la nevicata, il nuovo sindaco, i delitti, la piazza piena di gente…

Il pittore Piero Manai fotografa con la polaroid quanti visitano il suo studio, scatti unici sui quali poi lavora con i pennarelli. Alla fine degli anni ‘80 il fotografo francese Édouard Boubat, invitato alla Biennale di fotografia, si aggira per Bologna scattando fotografie e lasciandoci una testimonianza di pregio in un racconto quotidiano della città vista con altri occhi.

Per il resto si fotografano situazioni, momenti, oppure vicende e ambienti particolari: le case occupate, i centri sociali, le emergenze degli immigrati, i rave o le desolazioni della periferia. Gian Luca Perticoni e Massimo Sciacca iniziano così le loro carriere professionistiche, altri invece sono destinati a non intraprenderle insistendo nella ricerca del sapore di una vecchia Bologna che non c’è più. Altri ancora lasciano la città, come Francesco Guidicini che si iscrive ad un corso di fotogiornalismo all’Università di Sheffield per poi diventare chief portrait photographer del “Sunday Times”.

Abbiamo faticato a trovare immagini per questi ultimi anni, mancava quella coralità che invece avevamo trovato in altri periodi; la fotografia del quotidiano riscuoteva scarso interesse e i professionisti avevano trovato per il proprio lavoro orizzonti diversi rispetto a Bologna. Abbiamo faticato ma infine abbiamo preso atto del fatto che pochi erano rimasti in città a fare fotografie.

Pochi, ma fra questi Roberto Cevenini, il Ciccio, gestore dell’omonimo bar di via San Mamolo, che ci lascia in una quarantina di album le immagini degli avventori del suo locale fotografati da dietro il bancone.

Una preziosa galleria di carte de visite di fine Novecento che, pur nell’azzardato accostamento con le mademoiselle Angiolinìche fotografarono anche la Regina margherita, ci riporta al piacere per le facce, per la ritrattistica bolognese con la quale abbiamo iniziato questo racconto.

 

Tratto dal catalogo “Bologna Fotografata. Persone, luoghi, fotografi”. Cineteca di Bologna