La penna ironica di Filippo Venturi, oste e scrittore, ci racconta la sua Bologna
A Bologna, dopo il biennio di pausa forzata che si è preso collettivamente l’umanità, stanno arrivando svagonate di turisti, anche in questo periodo invernale solitamente più tranquillo. Atterrano da ogni parte del mondo con i loro voli low cost, la cui convenienza è subito ammortizzata dalla corsa irrefrenabile del tassametro che li porta in albergo. Ce ne sono di tutti i tipi e di tutte le età.
Ci sono gli spagnoli, che arrivano in trattoria come mine vaganti, abituati come sono a cenare in orari solitamente destinati al sonno, tanto che, quando si vedono rimpallati, pensano che la cucina debba ancora aprire. Ci sono gli anziani del Nord Europa, che, come i newyorchesi e gli australiani, non hanno cellulari sparpagliati sulla tavola, ma in compenso si sono portati dietro un accessorio che qui da noi è ormai in disuso: la pazienza. Sono allegri e tranquilli e ti danno l’impressione di non aver mai mangiato così bene in vita loro, cosa che sempre più di rado succede a noi bolognesi, che abbiamo avuto la nonna o la zia miglior cuoca del mondo, ma ci siamo dimenticati di impararne le ricette, e poi andiamo in giro (sui social) a lamentarci che Bologna non è più quella di una volta. Loro invece ci tengono a dirtelo e si sforzano di farlo in italiano, anche a costo di cadere in strafalcioni commoventi. “Bolonia molto bellissima e manciare tanto fantastico”. E comunque, sempre meglio di certi francesi che si ostinano a parlarti come se fossero entrati nel bistrò sotto casa e si indispettiscono se non li capisci al volo. Con loro c’è chi si arrangia col dialetto, perché l’etrusco è lingua ampiamente condivisa, che va bene anche con i londinesi e quel loro inglese rotondo e incomprensibile. Stil-uò. Eh? Still water. Ah.
Bologna stracolma di gente significa anche domande bizzarre, soprattutto con certi turisti indigeni. La tradizione intesa in senso stretto vacilla di fonte ai colpi dell’abitudine e dello scarso spirito di adattamento. “Paese che vai, usanza che trovi” è un detto non sempre così amato e, in città, l’obiettivo più sensibile diventa proprio lui, il protagonista indiscusso della nostra tavola: sua maestà il tortellino. Infatti, con i primi caldi che da qui a un mesetto soffieranno sulla voglia di brodo, verrà richiesto nei modi più strampalati: semplicemente scolato e servito, al “sugo”, il più terrificante di tutti, tirato in padella al burro e salvia o addirittura con le verdure di stagione, roba che in confronto, lo spaghetto alla bolognese è un caposaldo della cucina petroniana. E poi il resto: chiederanno perché la cotoletta alla bolognese non è come quella milanese. Si stupiranno perché la lasagna verde non è vegetariana. Si avventeranno su piatti di tagliolini con forchetta e coltello, arrotoleranno la tagliatella nel cucchiaio, rovesceranno ciotole di insalata nei gnocchi al pomodoro, sorseggeranno calici di limoncello con la gramigna alla salsiccia, berranno ettolitri di cappuccino come aperitivo. Ma andrà tutto bene così. Bologna non è più quella di una volta, questo è sicuro, ma sarebbe quantomeno buffo fosse ancora quella di cinquant’anni fa. “Bolonia wonderful town. Io ritorni prossimi anno”. “A san di mondi d’accord’ uit iu, my old amig’. Ma adess’ to’ mò ‘na sòppa inglais”.
Filippo Venturi, scrive romanzi per Mondadori, l’ultimo si intitola “È l’umido che ammazza”, terzo caso di Emilio Zucchini