di Luciana Apicella
Non serve inoltrarsi nei sotterranei di Bologna per scoprirne lati nascosti e inesplorati: le sue vie, le sue
mura, i palazzi e le chiese sono un inesauribile scrigno di curiosità, spesso inedite anche a chi crede di
conoscere la città come le sue tasche. Così, un’alternativa al forzato stop delle attività culturali – con la
riapertura parziale dei Musei che ha rappresentato una vera e propria boccata d’ossigeno – può essere
quella di attraversare Bologna con un’inedita mappa di storie, aneddoti e racconti, da scoprire o riscoprire.
Un’ottima guida al viaggio è il libro “Bologna che nessuno conosce. Luoghi insoliti e storie curiose che
hanno fatto la storia della città dei portici” (Newton Compton) di Luca Baccolini, giornalista e scrittore, già autore di altri due volumi sulla storia della città: a lui abbiamo chiesto di condurci in un percorso inusuale lungo la direttrice dei portici, alla scoperta di una trama di volti, storie e aneddoti che ci regalano una lente inusuale sulla città
Prima dei DPCM: i più strampalati editti bolognesi dall’Archivio storico di San Giorgio in Poggiale (via
Nazario Sauro, 20/2)
Realizzata all’interno di un’ex Chiesa cinquecentesca, la Biblioteca d’Arte e di Storia di San Giorgio in
Poggiale è forse uno dei luoghi più affascinanti di Bologna, custode di importanti opere d’arte
contemporanea, come il monumentale “Campo dei Fiori” di Claudio Parmiggiani e il ciclo Cattedrale di
Piero Pizzi Cannella, oltre che del patrimonio librario della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna.
“Centomila libri sulla storia culturale, sociale e artistica locale, un’imponente emeroteca con quotidiani e
periodici dalla fine del XVII secolo ad oggi, un archivio fotografico costituito da circa 60mila fototipi dalla
seconda metà dell’Ottocento – racconta Baccolini. “Tra i documenti conservati, una serie di curiosi editti
promulgati nel corso dei secoli, come quello di non portare immondizia in San Petronio né giocare nei suoi paraggi, risalente al 1631, o il divieto di recarsi alle feste al di fuori del proprio comune, datato 1656, che in qualche modo ci riporta alle odierne limitazioni anti-Covid”.
Dietro le quinte: la macchina delle meraviglie del Teatro Comunale (e quella prima di Wagner in Italia) –
Via Zamboni “Bologna città della musica è un appellativo di cui forse a volte sfugge la solidità storica: molti sanno del passaggio in città del giovanissimo Mozart, che a soli 14 anni fu ammesso alla Regia Accademia grazie alla complicità di Padre Giovan Battista Martini, o del legame che Rossini ebbe con essa, della quale si definiva figlio adottivo, abitando per circa trent’anni a più riprese vicino all’attuale Museo della Musica in Strada Maggiore. Ma il Teatro Comunale fu anche il primo in Italia ad accogliere un’opera di Wagner, il “Lohengrin”, il 1 novembre 1871”. A quei tempi era già in funzione il poderoso meccanismo sotto la platea della Sala Bibiena: “costruito nel 1820, era un miracolo ingegneristico di leve, argani, ruote, paranchi e funi che sollevava la platea a livello del palcoscenico, raddoppiando la superficie, diventando il salone da ballo più ambito della città” dice Baccolini. Un meccanismo che potrebbe essere ancora perfettamente funzionante, e che a due secoli di distanza sarebbe bello poter rivedere.
Nomen omen: via Paradiso, la strada della salvezza
Risalendo a ritroso lungo la linea del tempo, numerose sono state le pandemie che hanno colpito nei secoli passati la popolazione. Sono le mura della città a raccontarci, come spesso accade, una storia forse poco nota, a partire da via Paradiso, nel cuore della “movida” studentesca della leggendaria via del Pratello. A metà del XIX secolo si abbattè infatti su Bologna una violenta epidemia di colera: “da maggio a novembre 1855 si contarono in città quasi 4000 morti di colera su una popolazione di 90.000 abitanti: la peggior epidemia in tempi moderni, dopo la peste del 1630. Tra le poche zone della città non toccate dal cosiddetto “morbo asiatico” ci fu via Paradiso, dove ancor oggi si può leggere una targa di ringraziamento posta dai suoi residenti”.
Da piazza Santo Stefano all’haute couture parigina: l’incredibile storia di Isotta Zerri
Fu forse l’eleganza di una delle piazze più belle ispirazione per Isotta Zerri, la signora dei cappelli di Bologna, che al numero 9 accolse fin dagli anni Trenta
nel suo atelier le signore della buona società. “Tra piume e feltri, fiori, organze e pellicce, le creazioni della Zerri non erano solo cappelli ma capolavori in miniatura di creatività e stravaganza. Un talento che la fece presto notare anche Oltralpe, chiamata da Coco Chanel in persona e da Dior”. I suoi cappelli furono indossati da teste celebri del Ventennio, da Edda Ciano a Donna Rachele Mussolini, e poi da star del cinema come Grace Kelly e Gina Lollobrigida, un successo che cominciò a declinare con il mutare della moda, quando il cappello diventò un ingombro poco pratico per una donna che rivendicava nel mondo un nuovo ruolo. “Da Bologna la Zerri non volle mai andare via” dice Baccolini “per amore della sua città e anche per controllare un marito piuttosto incline alle scappatelle: leggendarie sono le borsettate e i colpi di ombrello che la bizzosa cappellaia non lesinò alle presunte amanti del coniuge, sorpreso in flagranza di adulterio”.
La prima piscina pubblica – Via Milazzo, 28
Una storia curiosa della Bologna città delle acque, di cui è simbolo la finestrella di via Piella che è diventata ormai da tempo meta della curiosità dei turisti. “In passato i bolognesi non avevano remore a tuffarsi nei canali per nuotare o trovare un po’ di refrigerio” racconta Baccolini. Fino almeno al 1910, quando venne inaugurata quella che fu a tutti gli effetti la prima piscina pubblica: “la Vasca natatoria, questo il nome, si trovava nell’attuale via Milazzo, al civico 28. La grande piscina scoperta in prossimità dello stadio Littoriale, oggi intitolata a Carmen Longo, fu aperta solo 17 anni dopo. Con entusiasmo i primi cronisti la
equipararono alle «terme romano-pompeiane». Nessuno però si era preoccupato delle case che
circondavano la piscina, dalle quali si poteva vedere senza sforzo ogni tipo di attività natatoria, e non solo: la prossimità dei tetti sullo specchio d’acqua indusse i più temerari a tuffarsi direttamente dalle case, anziché dai trampolini”.