AGAINandAGAINandAGAINand è la collettiva che apre la stagione espositiva 2020 del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna.
La Sala delle Ciminiere del museo bolognese appare trasfigurata dalla presenza peculiare dei lavo- ri di sette tra i più noti artisti contemporanei: Ed Atkins, Luca Francesconi, Apostolos Georgiou, Ragnar Kjartansson, Susan Philipsz, Cally Spooner, Apichatpong Weerasethakul.
La mostra, a cura di Lorenzo Balbi con l’assistenza curatoriale di Sabrina Samorì, rimane aperta al pubblico dal 23 gennaio al 3 maggio 2020 ed è uno dei Main project di ART CITY Bologna 2020, il programma istituzionale di mostre, eventi e iniziative speciali promosso dal Comune di Bologna in collaborazione con BolognaFiere in occasione di Arte Fiera.
Il tema della ciclicità e del superamento della rappresentazione lineare del tempo pervade il di- battito scientifico contemporaneo a tal punto da poter essere considerato dai fisici il centro di una rivoluzione del pensiero che ci sta portando a riconsiderare l’idea stessa di tempo attraverso nuove teorie come quella delle stringhe e della gravità quantistica a loop.
AGAINandAGAINandAGAINand si pone l’obiettivo di indagare il tema del loop, della ripetizione e della ciclicità nella contemporaneità, analizzandolo da diverse angolazioni attraverso le opere di artisti che hanno posto l’argomento al centro della propria ricerca.
Il progetto espositivo si sviluppa seguendo diversi approcci: uno sociologico che guarda all’impatto delle nuove tecnologie e dei nuovi sistemi di organizzazione del lavoro sulla vita psicologica e fisi- ca dell’essere umano; uno filosofico e religioso che prende ispirazione da forme di conoscenza e di credenza basate sull’olismo, sulla reincarnazione e sulla ciclicità temporale; fino ad uno ecolo- gico che propone nuovi modelli di produzione e consumo basati su una rinnovata coscienza della cultura rurale.
Gli autori delle opere allestite negli spazi del MAMbo provengono da differenti parti del mondo e problematizzano il tema, mostrando come nell’arte sia oggi presente una riflessione sul tempo e sulle forme di conoscenza e di potere che da esso scaturiscono.
Spaziando tra i diversi media – performance, video, scultura, pittura, fotografia e installazione – il progetto propone un percorso strutturato in ambienti immersivi, caratterizzati da intensità tem- porali differenti.
L’artista greco Apostolos Georgiou (Thessaloniki, 1952, vive e lavora ad Atene) realizza dipinti che rappresentano uomini e donne in ambienti lavorativi e domestici. Immersi in un’atmosfera estra- niante, i personaggi vivono scene di quotidianità in cui riecheggiano le paure, le angosce e i tor- menti di una classe media alienata dalla ripetitività del lavoro impiegatizio e della vita familiare. Con una pittura tonale espressa tramite pennellate decise e squadrate, Apostolos Georgiou raffigu- ra uomini e donne intrappolati in ambienti domestici e lavorativi quotidiani.
Osservando gli abiti e i pochi dettagli presenti nei dipinti, è possibile riconoscere il costume degli anni Cinquanta, periodo in cui prende forma una nuova società dei servizi che delinea precisi mo- delli di lavoro e di famiglia, destinati a diventare quelli comuni della società occidentale.
Grazie a un attento utilizzo del non-finito come tecnica di costruzione degli ambienti, l’artista tra- sforma un periodo storico in una dimensione senza tempo. Ciò che non muta e che affiora dai volti dei personaggi sono le emozioni, la vita interiore di un essere umano che rivendica la propria real- tà. Sospesi in un’atmosfera narrativa senza uscita, essi appaiono goffi e incapaci di gestire la pro- pria condizione, cercando riparo su se stessi. La loro interiorità è resa evidente nei gesti e nelle si- tuazioni surreali rappresentati: porgere nervosamente dei fiori alla propria amata, rimanere im- mobili tra bambini che giocano, tenere in mano fogli in modo confuso, gesticolare velocemente, lavorare in campagna con gli abiti da ufficio. Così come accade in una narrazione tragicomica, i personaggi, proprio mascherando le loro paure, enfatizzano la propria fragilità.
Ragnar Kjartansson (Reykjavík, 1976, vive e lavora a Reykjavík) con atteggiamento nichilista e di- sincantato mette in discussione e gioca con gli stereotipi contemporanei. La sua ricerca si sviluppa proprio a partire da quei clichè narrativi, linguistici e identitari prodotti dalla cultura occidentale che includono, tra gli altri, l’oggettificazione del corpo femminile, l’ideale di artista dannato, il machismo, il romanticismo nordeuropeo. Nella rielaborazione di questi temi, l’artista mantiene presente una domanda sulla condizione esistenziale dell’essere umano, di cui spesso fornisce un ri- tratto tragicomico capace di coinvolgere lo spettatore in una intensa esperienza emotiva.
Bonjour (2015) è una performance ambientale composta da una imponente scenografia che ripro- duce nei minimi dettagli la porzione di un villaggio francese, probabilmente degli anni Cinquanta. Mentre una donna prende un vaso di fiori per riempirlo alla fontana, un uomo esce dalla propria casa per fumare una sigaretta e rivolgerle un saluto. Lei risponde timidamente, torna verso la sua abitazione, per poi voltarsi gettando un ultimo sguardo all’estraneo. La scena si ripete ogni cinque minuti per tutta la durata della mostra, accompagnata dalla musica della celebre canzone La Mer di Charles Trenet, 1946. Mentre mette in luce i diversi elementi che definiscono lo stile romantico del cinema e del teatro, l’opera fornisce un’immagine del ‘sempre nuovo’ insito nella ripetizione dello stesso gesto. Bonjour ad oggi è stata presentata unicamente al Palais de Tokyo di Parigi (2015/2016). A Bologna i performer coinvolti sono: Luca Arcangeli, Serena Dibiase, Giulia Lorenzel- li, Roberto Papavero, Francesca Pedone e Sergio Scarlatella.
Cally Spooner (Ascot, 1983, vive e lavora tra Atene e Londra) indaga la natura pervasiva della nuo- va economia dei dati che, grazie all’evoluzione dei canali di informazione, conduce ad un control- lo progressivo della vita sociale e interiore degli individui. In particolare, l’artista pone attenzione al linguaggio e alla sua capacità di creare situazioni, di sorreggere sistemi economici e di influen- zare, spesso in modo invisibile, le menti e i corpi. Ogni opera è concepita in un primo momento come un testo, che viene a poco a poco riadattato modificando la struttura in base al medium. Questo procedimento di rielaborazione diventa esemplificativo del modo in cui l’artista concepisce le strategie di resistenza: “mantenere irrequieto” lo spazio e il tempo.
DRAG DRAG SOLO (2016) è un video che nasce da una ripresa a porte chiuse della performance parte del più ampio progetto On False Tears and Outsourcing, presentato al New Museum di New York lo stesso anno. La coreografia si sviluppava dall’interpretazione libera di movimenti prove- nienti dallo sport, di esercizi e pratiche del team building aziendale e della gestualità dei film ro- mantici, con il fine di riflettere sull’impiego di protocolli e convenzioni come risposta al bisogno di comunicare. DRAG DRAG SOLO non è da definirsi come una documentazione, ma come una ulterio- re rielaborazione di un lavoro pensato come finito. Mediante una pratica di mediazione, Spooner opera su un piano che definisce una “rehearsal of means”, concependo la ripresa di un discorso, in questo caso una performance, come uno strumento per destabilizzare un ordine stabilito. Il tempo della prova e del tentativo, con il loro persistere e attendere, contengono in sé un’intensità tem- porale che mette in crisi la crononormatività neoliberale.
Luca Francesconi (Mantova, 1979, vive e lavora a Mantova) ne Il Calendario delle Semine (2009), racconta come “tramite l’agricoltura, l’uomo ha avuto le prime necessità di confrontarsi con il tempo, di ordinarlo e di iniziare a maneggiarlo, quindi teorizzarlo”. Secondo l’artista, la cultura rurale, grazie alla sua capacità di rendere il tempo qualcosa di malleabile, fisico e tangibile, per- mette all’essere umano di vivere seguendo un ritmo circolare dove tutto torna ogni giorno sotto una nuova forma. Osservando questa particolare concatenazione di eventi, Francesconi sviluppa i propri lavori dalla modifica parziale di oggetti trovati e dalla rappresentazione di strumenti, ani- mali e vegetali provenienti dall’iconografia contadina popolare.
Grazie a una riflessione su cicli biologici come la digestione e su quelli produttivi come la rotazio- ne delle colture, l’artista riporta l’attenzione ad un rapporto diretto con la natura per sottolineare come l’estrema industrializzazione della società contemporanea abbia portato a una snaturalizza- zione della produzione e del consumo.
In mostra nuove produzioni, oggetti e opere storiche affrontano quindi il tema della ruralità e del tempo ciclico. Nella prima sala un gruppo di sculture composte da uomini stilizzati in ferro, la cui testa è stata sostituita da frutta e ortaggi, mette in scena le dinamiche di potere tra un caporale e alcuni braccianti. La scelta del ferro come materiale del corpo consente di dividere simbolicamen- te la terra dalla testa degli uomini, sottolineando la spersonalizzazione del lavoro agricolo.
Nella seconda sala, Francesconi fornisce un’ampia riflessione sul ciclo naturale presentando in te- che e mensole diversi pesci (reali, finti e rappresentati in nuova forma) catturati in specifiche fasi di trasformazione biologica. Altri oggetti come una pelle di serpente e l’opera Serpente delle risaie (2016) un serpente composto di sassi e palle di riso, rimandano invece alla valenza che questo ani- male ha assunto nel tempo per raccontare e immaginare i cicli, l’eterno ritorno e la metamorfosi infinita dei corpi.
La ciclicità è alla base anche del concetto di reincarnazione. Apichatpong Weerasethakul (Khon Kaen, Thailandia, 1970, vive e lavora a Chiang Mai, Thailandia) ha approfondito i legami tra la cul- tura locale e quella occidentale alla luce delle politiche economiche estrattive di forte impatto ambientale. I suoi lavori in mostra creano connessioni tra un passato di tradizioni e credenze reli- giose e i traumi causati dalla distruzione di ambienti e comunità. Tra i più noti artisti tailandesi, Weerasethakul ha dedicato gran parte della sua ricerca a rinarrare la memoria di un paese, il suo di origine, che negli ultimi anni ha subito brutali occupazioni militari, violente politiche estrattive e un controllo culturale nazionalistico. Tornando sui luoghi della propria infanzia, l’artista raccon- ta la propria storia attraverso una lettura personale che fornisce preziose testimonianze delle cre- denze e delle superstizioni che ancora scandiscono la quotidianità della popolazione. Storie di fan- tasmi, spiriti e reincarnazioni definiscono un universo in continua trasformazione, dove ogni crea- tura è parte di un’infinita rigenerazione ciclica. Pensate come qualcosa di organico, le opere filmi- che e le installazioni sono costruite a partire da un attento dialogo tra luce e buio (alla base dei cambiamenti atmosferici), così come dalla compresenza di temporalità e piani di realtà differenti. A Letter to Uncle Boonme (2009) video parte del più ampio progetto Primitive, è ispirato a un li- bro, che l’artista ha ricevuto in dono da un monaco, in cui viene narrata la storia di Boonme, un uomo proveniente dal nord-est della Thailandia, capace di raccontare le proprie vite passate. In omaggio alla regione di provenienza di Weerasethakul, l’opera è ambientata a Nabua, villaggio di- strutto dalle milizie nazionaliste. La sceneggiatura del cortometraggio è ispirata alle diverse rein- carnazioni e ai racconti di presunti figli e parenti del protagonista immaginario.
La ricerca di Ed Atkins (Oxford, 1982, vive e lavora a Londra) riflette sulla rappresentazione e sul- la creazione della soggettività in un’epoca segnata dalla mediazione digitale. Nei suoi video, la so- cietà è osservata tramite gli occhi di un avatar dell’artista che, riprodotto grazie a modelli CG (computer-generated), è ritratto in momenti di solitudine, disperazione e tormento.
Safe Conduct (2016) è una video-installazione composta da tre grandi monitor appesi al soffitto, si- mili a quelli di aeroporti, stazioni e centri commerciali. Il video raffigura il surrogato digitale dell’artista che, ritratto con aspetto quasi cadaverico, vaga per l’area di check-in e di ritiro bagagli di un aeroporto deserto. Il corpo del personaggio viene ridotto in pezzi riconoscibili sui nastri tra- sportatori insieme a oggetti proibiti come pistole e riferimenti alla morte come teschi e sangue. L’idea di circolarità e di eterno ritorno è presente in diversi aspetti del video, come nella musica scelta, il Boléro di Maurice Ravel che, ripetendosi in un crescendo graduale e continuo, enfatizza il senso di angoscia e cattura del soggetto.
Atkins fornisce così un’immagine di un corpo e di un’identità che si disgrega di fronte alla presenza capillare dei sistemi di sicurezza e dell’odierna politica del terrore.
La mostra si apre e si chiude con un’opera audio di Susan Philipsz (Maryhill, Glasgow, 1965, vive e lavora a Berlino) installata in un luogo di passaggio del museo. L’artista indaga lo spazio emotivo e psicologico che si crea nella relazione tra suono, spazio architettonico e soggetto. Giocando con una fruizione imprevista, Philipsz permette al pubblico di ritrovare un’intensità emotiva perduta e di restituire allo spazio pubblico il ruolo di epicentro di incontri, dialoghi e sensazioni. I lavori dell’artista infrangono la neutralità dei non-luoghi contemporanei trasformandoli in siti di trasmis- sione culturale.
Guadalupe (2003-2019) è stata realizzata dall’artista durante una residenza presso Artpace a San Antonio in Texas. Composto di registrazioni sul campo e suono sintetizzato, il lavoro richiama la sensazione di spaesamento e perdita di uno straniero in un paese estero. Grazie alla fusione di più elementi sonori, lo spettatore si trova improvvisamente all’interno di uno spazio pubblico affolla- to, il cui rumore è accentuato dal risuonare di una versione strumentale lenta della canzone folk I’m So Lonesome I Could Cry di Hank Williams. Pochi secondi dopo, una persona inizia a fischietta- re, mentre una voce all’altoparlante sembra collocare la scena in una stazione di autobus. Una donna, in questo caso Philipsz stessa, chiede informazioni per Guadalupe, senza mai riuscire a rag- giungerla. Dopo pochi secondi di silenzio, come in un fuori scena, l’artista è rincuorata dall’incon- tro con un estraneo che le canta dal vivo la canzone di Williams. L’opera si struttura su un movi- mento circolare ripetuto che richiama l’andamento nervoso di un viaggiatore che, in cerca di indi- cazioni, tenta di fronteggiare diverse problematiche tra cui le barriere linguistiche. Guadalupe è presentata in questa mostra in una versione inedita, arricchita di registrazioni sul campo ritrovate dall’artista, risalenti al periodo trascorso a San Antonio.
AGAINandAGAINandAGAINand è corredata da una pubblicazione Edizioni MAMbo, a cura di Cateri- na Molteni, che include un saggio critico del curatore Lorenzo Balbi, schede esplicative delle ope- re in mostra e una sezione di approfondimento con testi e contributi degli artisti e contenuti inedi- ti sul tema, affidati a teorici contemporanei quali il filosofo Federico Campagna, l’antropologa Elizabeth Povinelli e la stessa Molteni.
La mostra è inoltre accompagnata dall’attività di mediazione del Dipartimento educativo MAMbo per una migliore fruizione del percorso espositivo da parte del pubblico di ogni fascia d’età.
AGAINandAGAINandAGAINand è resa possibile grazie al prezioso supporto del main sponsor Gruppo Hera:
“Una mostra di questo tipo non poteva che suscitare la nostra attenzione – afferma Giuseppe Ga- gliano, Direttore Centrale Relazioni Esterne del Gruppo Hera – perché il tema della ciclicità e, so- prattutto, della circolarità è il faro che guida quella transizione verso modelli di sviluppo sempre più sostenibili in cui Hera è impegnata al fianco delle comunità servite. Per troppo tempo abbiamo immaginato l’innovazione come una retta, che si prolungava verso l’infinito. Oggi, invece, innova- re significa anche e soprattutto saper ritornare sui propri passi, riscoprire e riutilizzare, rimettere in valore, recuperare. La riflessione di questi artisti, quindi, è per noi di assoluto interesse e, nel sostenerne con convinzione la mostra, crediamo che essa possa coinvolgere ed avvincere anche il pubblico ampio ed esigente che il MAMbo, anno dopo anno, riesce continuamente a sorprendere.”
L’esposizione si realizza inoltre grazie allo sponsor Gruppo Unipol e in co-progettazione con LAMI- NARIE. Sponsor tecnico: Freak Andò.
Si ringraziano Orea Malià e FICO Eataly World.