Museo Civico Archeologico, 29 marzo- 8 settembre 2019
Volti e corpi ieratici che a noi occidentali ricordano immediatamente le sculture di Modigliani e Brancusi, i dipinti di Nolde e Picasso. Ma anche visi mirabilmente torniti nel bronzo, di fidiana perfezione come solo i putti e i Cristo in fasce di Raffaello. Oggetti di potere e di culto che rimandano al metafisico, agli antichi riti, alle forze umane e soprannaturali. Ma anche figure in miniatura per pesare la polvere d’oro, cesellate come orologi del Seicento tedesco. E ancora, saliere in avorio, olifanti e cucchiai realizzati anticamente in Africa su commissione europea, per quelle che un tempo si chiamavano arti applicate.
Nel complesso, non documenti etnografici o manufatti di artigianato ma semplicemente e finalmente opere d’Arte. Perché i tempi cambiano, i saperi progrediscono e sfatano miti, credenze, luoghi comuni e pregiudizi.
Per troppi anni, complice l’immaginario negativo europeo avallato persino da filosofi del calibro di Hegel, da secoli di schiavismo, di colonialismo e di sfruttamento economico, le espressioni artistiche dell’Africa (perché si tratta di opere di diverse e distinte popolazioni) sono state considerate relitti di una civiltà inferiore, anonime figlie senza tempo di un generico sapere collettivo. Al contrario, si tratta di creazioni di autentici artisti, testimonianze di una grande cultura viva fino a un secolo fa che la modernità ha brutalmente cancellato. Che l’Africa avesse prodotto arte è stato un riconoscimento faticoso, a lungo negato, che ha richiesto secoli, malgrado le cronache dei primi europei sbarcati nel Quattrocento sul Continente Nero, pur oscillando tra curiosità, repulsione e attrazione, non mancassero di testimoniare un autentico stupore per le opere, le architetture e le organizzazioni sociali di quei popoli.
Del resto, già Plinio il Vecchio scriveva Ex Africa semper aliquid novi, perché dall’Africa davvero “arriva sempre qualche novità”. A questo allude il titolo della mostra “Ex Africa. Storie e identità di un’arte universale” – dal 29 marzo all’8 settembre 2019 al Museo Civico Archeologico di Bologna, prodotta da CMS.Cultura e curata da Ezio Bassani e Gigi Pezzoli, con il contributo di studiosi italiani e stranieri.
Per la varietà dei temi trattati, si tratta dell’esposizione sull’arte africana più ampia mai organizzata in Italia, nella quale si spazia da testimonianze su culture antiche, vecchie di mille anni, fino alla produzione degli artisti contemporanei. In mostra sono documentati i diversi sguardi con i quali l’Occidente si è posto dinnanzi alle espressioni plastiche dell’Africa: dall’antico collezionismo di curiosità esotiche alla pura estetica, dal significato rituale e religioso di queste manifestazioni fino al superamento di vecchi preconcetti di un’arte anonima e senza tempo. Un’esposizione articolata in più sezioni che sviluppano temi specifici: la qualità formale espressa in opere di grande e piccola dimensione, gli oggetti antichi di celebri regni africani, insieme alle maschere, le figure rituali e di potere. E anche le nuove frontiere della ricerca sull’arte africana: l’antichità di quelle manifestazioni e l’identificazione di alcune “mani dei maestri”. Infine, l’estetica “diversa” del vodu, un’arte accumulativa impregnata di sacralità e il suo persistente divenire che prelude agli esiti degli artisti contemporanei pure presenti in mostra.
Le creazioni degli artisti dell’Africa Nera, abitanti cioè a Sud del Sahara, hanno dovuto aspettare il XX secolo, in particolare il secondo dopoguerra, per affermare la loro valenza artistica entrando, senza pregiudizi e condizionamenti etnografici, nell’universo delle arti tout court, alla pari di tutte le altre manifestazioni artistiche, contribuendo così ad accrescere il patrimonio culturale dell’intera l’umanità.
Come scrive Ezio Bassani – uno dei curatori a cui la mostra è dedicata, scomparso improvvisamente durante i lavori del progetto e figura alla quale si deve la diffusione della conoscenza dell’arte africana nel nostro Paese – : “L’attenzione preminente posta sugli aspetti culturali piuttosto che sulle opere e sulla loro individualità, l’enfasi sulla loro funzione e sul loro simbolismo, hanno troppo spesso confinato in secondo piano le qualità formali che sole fanno l’opera d’arte.
È indubbio che gli artisti avevano regole, codici e modelli propri da rispettare, perché le loro creazioni dovevano essere comprese e accettate dalla collettività per la quale assolvevano spesso una funzione rituale. Peraltro, anche molte opere d’arte religiosa europea hanno avuto nel corso dei secoli una funzione analoga. Quantunque gli artisti africani fossero vincolati dalla committenza, la varietà delle soluzioni formali da loro inventate, talvolta diversissime per funzioni analoghe, è impressionante. Nella rappresentazione della figura umana la cifra costante si può riassumere nella combinazione di frontalità e simmetria. Il movimento è appena accennato, più spesso sottinteso – come un principio virtuale – da un lieve spostamento dell’asse mediano, dall’inarcarsi del dorso, da una leggera flessione delle gambe. Le figure raramente hanno espressione, nessun gioco della fisionomia muove i tratti del volto, e i presunti ritratti sono riconoscibili soltanto per gli attributi che li contraddistinguono: scarificazioni, capigliatura, abbigliamento. Le parti del corpo umano sono nettamente definite come volumi autonomi, non necessariamente in proporzioni naturalistiche ma ricondotte ad un ritmo unitario ed astratto, una sorta di geometria della rappresentazione.
Maggiore libertà sembra fosse concessa agli scultori delle maschere: strumenti questi che consentono uno sdoppiamento, una metamorfosi dell’individuo nelle cerimonie iniziatiche per evocare avvenimenti o impartire insegnamenti. Se il montaggio, apparentemente arbitrario, di forme umane e animali rimandava probabilmente a norme codificate, ancora una volta la riuscita estetica è determinata dalla capacità dell’artista di trarre profitto da queste norme, e di organizzare le parti del suo discorso plastico.
La funzione delle opere d’arte africane, quasi sempre prelevate senza alcun corredo di informazioni, è stata molto spesso ipotizzata sulla base di elementi incompleti quando non addirittura inventati. Sono però proprio le opere d’arte che consentono di conoscere e apprezzare la civiltà africana in assenza di documenti scritti, perché è con le opere che l’artista nero è stato capace di dare forma compiuta alla sua visione del mondo. Lo stereotipo della mentalità primitiva degli africani è dunque contraddetto dall’arditezza delle astrazioni, dalla semplificazione senza impoverimento, dal vigore realistico, dalla libertà delle soluzioni formali inventate dai suoi artisti dotati di una straordinaria capacità manuale e di una grande sensibilità per il materiale. Gli scultori africani ci hanno lasciato opere d’arte in terracotta, pietra, bronzo, avorio, e prevalentemente in legno, che scolpivano senza disegni preparatori, limitandosi a indicare i rapporti volumetrici delle loro opere con colpi d’ascia nel tronco prescelto”.
L’esposizione segue un percorso diviso in 9 sezioni: Semplicemente Arte (a cura di Ezio Bassani, Gigi Pezzoli, Elio Revera); Non creazione anonima ma arte di artisti (a cura di Bernard de Grunne); Un’arte antica: il caso Mande, 1000 anni di arte del Mali (a cura di Bernard de Grunne); Un’arte di corte: il Benin (a cura di Armand Duchateau); Gli avori Afro-portoghesi (a cura di Ezio Bassani); Mostra di “Scultura Negra”, Venezia 1922 (a cura di Gigi Pezzoli); XX secolo: l’Europa guarda l’Africa (a cura di Micol Forti); Un’estetica “diversa”. Ordine e disordine nell’arte vodu (a cura di Pierre Amrouche); Arte africana contemporanea (a cura di Micol Forti).
La prima sezione, Semplicemente Arte, tratta della qualità estetica espressa in opere di grande e di piccola dimensione. La forza dirompente dell’arte tradizionale africana travalica i preconcetti che avevano confinato questi manufatti a documenti etnografici. È la testimonianza di una creazione che non ha nulla da invidiare all’arte di ogni parte del mondo. Dunque Arte nella sua forma più pura, quella che riguarda la comunicazione dell’ineffabile che è al di là delle parole. In mostra un’ampia selezione di figure rituali e di maschere provenienti dai più importanti musei europei e dalle più celebri collezioni del mondo. E insieme agli oggetti di grandi dimensioni, un gruppo di miniature in bronzo utilizzate per pesare la polvere d’oro.
La seconda sezione, Non creazione anonima ma arte di artisti, propone alcuni esempi di identificazione di personalità artistiche o di specifici atelier. Per lungo tempo l’arte tradizionale africana è stata infatti considerata l’espressione anonima di un generico sapere collettivo; non è così, e l’identificazione di alcune “mani dei maestri” consente di superare lo stereotipo di un’arte senza autori.
La terza sezione, Un’arte antica, presenta il caso Mande: 1.000 anni di arte del Mali attraverso antiche opere in terracotta e legno di Djenné, dei Soninke, dei Tellem e dei Dogon. Il più importante patrimonio di statuaria del medioevo africano, databile a partire dall’XI sec e secondo per antichità solo a quello dell’Egitto classico, proviene da una zona dal fascino senza tempo: il delta interno del Niger, tra la regione di Djenné, l’altopiano e le falesie di Bandiagara. Qui, alla periferia degli imperi sudanesi del Ghana e del Mali, trovarono rifugio popoli che si erano rifiutati di convertirsi all’Islam, dando vita ad una straordinaria cultura artistica.
La quarta sezione, Un’arte di corte, il Benin presenta gli oggetti antichi di un celebre regno africano che occupava un vasto territorio nell’area meridionale dell’attuale Nigeria. Nel 1668 Olfert Dapper, uno scrittore olandese, pubblicava la Descrizione dell’Africa e, in modo ammirato, raccontava della capitale del Regno del Benin. Il Palazzo Reale veniva descritto come raffinato e più vasto della città di Harlem, con gallerie grandi come quelle della Borsa di Amsterdam, sorrette da pilastri decorati con placche che raccontavano la storia di quel popolo. L’esposizione propone una straordinaria selezione di sculture e bassorilievi, prevalentemente in bronzo, opere di artisti sapienti, giunte in Europa alla fine del XIX secolo a seguito della razzia compiuta dal corpo di spedizione inglese. Inoltre, insieme a quelli del Benin, alcuni bronzi della vicina città stato di Ife; straordinari capolavori che gli scopritori europei dell’inizio del Novecento attribuirono immaginificamente a Fidia dell’Equatore. Grazie a un prestito eccezionale, alcune opere arriveranno direttamente dai musei della Nigeria.
La quinta sezione, Gli avori Afro-portoghesi, presenta una selezione di raffinate opere antiche. A partire dalla metà del XV secolo i navigatori Portoghesi commissionarono ad artisti africani la realizzazione di manufatti in avorio; quei popoli erano i Sapi della Sierra Leone, i Bini del Benin, e i Kongo dell’attuale Repubblica Democratica del Congo. Questi manufatti, veri ibridi culturali, sono noti come avori afro-portoghesi; si tratta di saliere, cucchiai, impugnature per daghe, pissidi e olifanti, destinati alle collezioni principesche e alle wunderkammer europee della fine del Rinascimento e dell’inizio dell’età barocca.
Nella sesta sezione, Mostra di “Scultura Negra”, Venezia 1922, viene riproposta la prima pionieristica esposizione di arte africana in Italia. Il 4 maggio 1922, nel centenario della morte di Antonio Canova e due anni dopo la scomparsa di Amedeo Modigliani, si inaugurava la XIII Esposizione Internazionale d’Arte della Città di Venezia, la futura Biennale. Nel Padiglione Italia a fianco di Canova e di una retrospettiva su Modigliani, per la prima volta nel nostro paese veniva allestita una Mostra di Scultura Negra nella quale erano presentate come “opere d’arte” statue e maschere africane provenienti dal Museo Etnografico di Roma (l’attuale Museo Pigorini) e dal Museo di Antropologia ed Etnologia di Firenze. Grazie alla collaborazione di queste due importanti realtà museali, per la prima volta dopo il 1922, viene presentata una selezione di opere di quella pionieristica esposizione.
Nella settima sezione, XX secolo: l’Europa guarda l’Africa, si da conto del dialogo straordinario avvenuto nei primi anni del XX secolo, tra la cultura artistica dell’occidente e la cultura visiva africana, la cosiddetta Art Nègre, nella quale gli artisti della Avanguardie storiche riconoscevano un’originarietà arcaica della forma e del suo valore simbolico e spirituale. In quegli anni, i Fauves e i Cubisti a Parigi e gli Espressionisti a Berlino e a Dresda scoprivano quelle manifestazioni provenienti dall’Africa tanto vicine alle loro ricerche rivoluzionarie e nell’entusiasmo, ne decretavano addirittura la superiorità sull’arte occidentale.
L’ottava sezione è intitolata Un’estetica “diversa”. Ordine e disordine nell’arte vodu. Quella del vodu è un’arte selvaggia, apparentemente disordinata, impregnata di sacralità, materica, accumulativa e in persistente divenire. Si tratta di opere intrise di religiosità, testimoni di un ancestrale rituale che si connette alle problematiche e alle paure dell’uomo, del passato e di oggi. In mostra, dalle sculture più grandi poste al centro dei villaggi, a quelle degli altari domestici, fino alle figure più piccole per l’utilizzo personale.
La nona sezione, Arte africana contemporanea, presenta opere d’arte contemporanee che nascono dal confronto tra un’eredità culturale e spirituale che si intrecciano, talvolta scontrandosi, con lo sguardo rivolto all’occidente, affermando comunque e sempre una precisa identità senza negare la possibilità di contaminazioni.
Nel complesso, l’esposizione intende raccontare nel loro contesto temporale storie d’arte e non solo; quindi storie di uomini, di incontri, di grandi e di piccole vicende, di casualità e di scelte, di passato e di presente. Sono infatti maturi i tempi per una visione globale che restituisca alle opere d’arte, ai loro creatori, a chi le ha raccolte e alle persone che stanno loro intorno, la loro singolarità, la loro identità di percorso, quella che viene loro dall’aver allacciato o sciolto determinate relazioni. Pertanto, l’esposizione non presenta e non parla solo di oggetti e di uomini nella loro condizione originaria, ma si interroga anche sugli oggetti e sugli uomini fuori dall’Africa, perché non si può più porre una questione senza l’altra. Il che equivale a sottolineare il carattere contemporaneo delle tematiche con cui abbiamo a che fare: si tratta di processi in corso, di situazioni attuali, e non unicamente di testimonianze di un tempo lontano.
Le opere in mostra arrivano dai principali musei del mondo tra cui citiamo, in particolare, la collaborazione di: Musei Vaticani, Gallerie degli Uffizi, Museo delle Civiltà – Museo “L. Pigorini”, Galleria Estense, Musei Universitari di Firenze, Museo Civico Medievale di Bologna, Museo quai Branly – Jacques Chirac di Parigi, Weltmuseum di Vienna, Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo, Staatliche Kunstsammlungen di Dresda, Wereldmuseum di Rotterdam, Museo Fünf Kontinente di Monaco, i musei MARKK e Kunst und Gewerbe di Amburgo e la National Commission of Museum and Monuments della Nigeria.
Ex Africa ha i patrocini del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale – la mostra rientra tra le iniziative del programma Italia Culture Africa indetto dal medesimo ministero per l’anno 2019 – del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, della Regione Emilia-Romagna e dell’Arcidiocesi di Bologna ed è promossa dal Comune di Bologna. Le attività didattiche sono a cura dei Servizi Educativi dell’Istituzione Bologna Musei
Inoltre l’esposizione ha ricevuto il patrocinio dell’ONU che ha ritenuto alcuni aspetti della mostra in linea con gli obiettivi dell’agenda 2030. Fra gli obiettivi dell’agenda ONU infatti un ruolo centrale è riconosciuto alla sostenibilità ambientale e alla sicurezza. Le tematiche affrontate dagli artisti africani contemporanei sono strettamente aderenti a temi quali la tutela dell’ambiente o la sicurezza; di particolare rilevanza in mostra l’arazzo di El Anatsui (in prestito dai Musei Vaticani), donato dall’artista a Papa Benedetto XVI e realizzato con materiali di recupero, plastiche e tappi di lattine raccolte sulle spiagge africane per un’ampia riflessione sul riuso coniugando la tradizione degli arazzi dei tessuti ghanesi con la contemporaneità. E ancora, la suggestiva installazione dell’artista Takadiwa Moffat che crea imponenti opere partendo anch’egli da materiali di scarto.
Immagine di testata: Man Ray, Noire et Blanche, 1926, Fotografia new print del 1980 Collezione privata, Courtesy Fondazione Marconi, Milano © The Museum of Modern Art, New York Scala, Florence © Man Ray Trust by SIAE 2018