Alla scoperta del parco agroalimentare con Gabriele Orsi
“Non è né bello né brutto, né carne, né pesce né vegan”
Non so se sia veramente fico così come potrebbe fare supporre il nome, di certo c’è che FICO, acronimo che sta per Fabbrica Italiana COntadina, il grande parco tematico dedicato all’agroalimentare italiano nato dalla vulcanica immaginazione di Oscar Farinetti, leader maximo di Eataly, e pagato con i quattrini – si parla di 100 milioni di euro – di Coop Alleanza 3.0, non è malefico, ma nemmeno magnifico. Probabilmente non è neanche salvifico, nel senso che non ce lo vedo come locomotiva tesa a trainare la ripresa dell’economia bolognese, probabilmente è una grande foglia di fico di adamitica memoria con cui la gdo cerca di spacciare per straordinarie referenze che sono del tutto normali, di sicuro è periferico. Lo ammetto, pensavo peggio: intendiamoci, nulla per cui restare a bocca aperta, ma la struttura esteticamente è molto bella, anche se lievemente labirintica, la formula è studiata con intelligenza ma senza strafare, e l’offerta cibaria, per quanto del tutto normale e reperibile nel supermarket sotto casa, è dignitosa con qualche punta rimarchevole.
Che cosa ho apprezzato, architettura a parte? Senza dubbio la parte didattica, con i frutteti e gli orti ordinati come se fossero stati realizzati da un giardiniere, il vitigno, l’agrumeto, persino la tartufaia, e ovviamente le stalle, con mucche, maiali, capre, galline, cavalli, conigli, pecore, oche e somari talmente tirati a lucido come nemmeno le statuine di porcellana della Thun. Le sei giostre multimediali, avveniristiche e ricche di informazioni utili sul rapporto tra l’uomo e rispettivamente la terra, il fuoco, l’acqua, il cibo, il vino e il futuro (dell’alimentazione si spera). Il piano-cottura, vero pianoforte a coda perfettamente funzionante con incorporata una vera cucina: sicuramente il must have di questo scorcio di secolo.
Poi ci sono le 40 e passa fabbriche, che in realtà sono botteghe e/o punti ristoro dove ciò che consumi paghi. E qui ho notato una presenza massiccia di sponsor, nel senso che tutto ha un nome e un cognome e che ciascuno, come in ogni Soviet che si rispetti, ha il suo compito prestabilito da cui è impossibile derogare: la pasta di Gragnano è De Martino, la pizza è Rossopomodoro, i tartufi sono Urbani, i biscotti e i panettoni sono Balocco, la birra è Poretti o Baladin, il pollo è Amadori, la cucina regionale è Fileni, il gelato è Carpigiani, il caffè Lavazza, le bibite Lurisia, i vini Cevico e Fontanafredda, le mele Melinda, la conserva di pomodoro Mutti e via di questo passo. Persino i bagni sono sponsorizzati, con la targa dell’azienda produttrice dei sanitari che campeggia all’ingresso. Non mancano i grandi consorzi della mortadella, del Parmigiano, del Grana Padano, della piadina romagnola, i prosciutti di Parma e di San Danele, il culatello di Zibello, lo Squacquerone, e ovviamente per chi non sa resistere al richiamo dell’epa una miriade di postazioni che distribuiscono, ovviamente a pagamento, arrosticini, panini col lampredotto, focaccia genovese, tigelle e crescentine, farinata di ceci, spremute di frutta e di verdura, pizza al metro, pesce fritto e chi più ne ha più ne metta.
Ci sono poi i picchi, divisi in due categorie: la prima consiste nella presenza di ristoratori stellati del calibro di Enrico Bartolini, Gian Paolo Raschi e Gaetano e Pasquale Torrrente, anche se resta da chiedersi se i loro locali, bellissimi e curatissimi, reciteranno fino in fondo, ovvero fino al conto, la parte per cui sono giustamente noti e apprezzati, oppure se si limiteranno a fare della pura rappresentanza. La seconda vede in lizza gli assi di briscola, ovvero quelle realtà che chiunque desideri fare enogastronomia a Bologna e voglia dimostrare di fare sul serio, non può esimersi dal coinvolgere pena la gogna pubblica: parliamo del Forno Calzolari di Monghidoro, della Macelleria Zivieri di Monzuno e della Trattoria Amerigo di Savigno, qui relegata alla gestione della fabbrica dei condimenti per pasta da vendere in barattolo.
Poi ti guardi attorno, e capisci che il centro congressi capace di ospitare fino a mille persone svela il vero business a cui mirano i gestori della struttura, guardi ancora e trovi presenze che non c’entrano un fico secco come le librerie.coop, il Mare Termale Bolognese, il bagno Fantini Club con enormi campi da beach tennis, il bike store della Bianchi. E capisci che l’intera baracca è poco più di un ipermercato solo un filo divertente.
E, lo dico con sincero rammarico, scopri che soffre di alcune criticità che ne minano alla base le possibilità di un successo che, passata la scucchia entusiasta post-taglio del nastro, si presumerebbe duraturo. Colpa di una logistica non appropriata (dicevamo che FICO è periferico, e infatti è ai confini nord della città) cui non riusciranno a ovviare le navette Tper in partenza dalla stazione (costo: 7 euro a corsa) e che alla prima fiera rischiano di trovarsi costipate nel traffico come tutti i veicoli terrestri. Quello che occorrerebbe è un collegamento ferroviario, o in sottordine uno svincolo autostradale dedicato, ma non ci sono né l’uno né l’altro. E se a mio giudizio la cifra di visitatori prevista, che ammonta a 6 milioni di persone l’anno, è irrealistica in partenza perché FICO non è la Torre Eiffel, lo è ancora meno alla luce di queste deficienze di natura logistica. Il secondo punto dolente è che FICO non è un posto pensato per i bolognesi: i suoi target di visitatori sono i turisti stranieri, meglio se danarosi e vittime dei luoghi comuni, e le scolaresche, che apprezzeranno oltre agli animali anche il gigantesco minigolf che riproduce la cartina dell’Italia. Se queste due categorie tradiscono le attese, tempo due anni FICOrischia di diventare una cattedrale nel deserto, o un asset da vendere a qualcun altro come il CAAB prima di lui. Ecco quindi cos’è FICO, un luogo comune, nel senso che propone e valorizza referenze in realtà e salvo qualche rara eccezione del tutto ordinarie. Ma non è detto che sia un male. Quindi in definitiva non è né bello né brutto, né carne, né pesce né vegan. Porte aperte dal 15 novembre. L’ingresso è gratuito, ma l’uscita a pagamento, nel senso che a parte vedere le mucche, tutto ciò che vai a fare a FICO si paga a caro prezzo, che tu voglia mangiare, acquistare, seguire un corso, entrare in una giostra multimediale, bere un bicchiere, lasciare i figli all’ AgriBottega, o qualsiasi altra cosa tu abbia in mente. E se invece ci vai per non fare nulla, che cosa ci vai a fare a FICO? Il fico? O il bonifico?
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