Il Giorno della Memoria: 27 gennaio

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Nel giorno della Memoria c’è la seduta solenne del Consiglio Comunale. Ecco l’intervento della Proessoressa AdaChiara Zevi
Di seguito l’intervento “Oltre il grado zero” tenuto da Adachiara Zevi,
Presidente della Fondazione Arte in Memoria

“Il Parco Storico di Monte Sole, il Museo-Monumento al Deportato Politico e
Razziale di Carpi, il campo di transito di Fossoli, il memoriale della
strage nella stazione di Bologna, quello alle vittime di Ustica, il Museo
dell’Ebraismo Italiano e della Shoah a Ferrara, il Memoriale alla Shoah di
Bologna, che inaugurerà tra due giorni e quello dedicato ai ragazzi di
Villa Emma, in procinto di essere progettato a Nonantola: nessuna regione
d’Italia credo possa vantare un ventaglio così ampio e variegato di
realizzazioni dedicate alla storia e alla memoria delle tragedie occorse
nel XX secolo. “Siti del trauma”; memoriali eretti per commemorare vittime
del terrorismo; architetture museali per ripercorrere storie millenarie e,
nel caso anomalo di Nonantola, un memoriale dedicato a una storia a lieto
fine, nutrita di accoglienza, solidarietà, salvezza. Se questi sono i
destinatari, lo spettro altrettanto vasto dei linguaggi artistici e
architettonici espressi dalle opere consente di interrogarci sul ruolo
svolto dall’arte e dall’architettura nei processi di rammemorazione.
Il Parco Storico di Monte Sole, istituito nel 1989, può definirsi un
“monumento come territorio”: coinvolge tre comuni, teatro delle stragi
naziste del ’44; è un parco polifunzionale dove la memoria del passato, che
si estrinseca negli itinerari attraverso i luoghi, i resti, le lapidi e i
sacrari, si coniuga con un impegno fortemente orientato sul presente, sulla
difesa dell’ambiente e, grazie alla scuola di Pace aperta nel 2002, sulla
formazione dei giovani alla cultura della pace, contro il razzismo e la
xenofobia. Mi ha colpito un’iniziativa che ha visto protagonisti, in
occasione della festa del 25 aprile 2011, i ragazzi della scuola media di
Marzabotto nella costruzione di 770 gocce in memoria delle vittime della
strage del 29 settembre ‘44, di cui 216, contrassegnate da un nastrino
bianco, in ricordo dei bambini. Un’opera collettiva, nata dall’esigenza di
comprendere concretamente un pezzo di storia, di rendere tangibile un
numero astratto perchè i numeri, come si legge su una goccia, “sono parole
e non sono visibili”.
La sorte del campo di Fossoli che, dalla costruzione nel ’42 fino
all’abbandono nel ’70, ha assistito a un avvicendarsi di destinazioni, da
campo di transito nazionale per la deportazione razziale e politica a campo
degli “indesiderabili”, da sede della comunità di Nomadelfia a campo per i
profughi giuliani e dalmati, è ancora incerta: l’esito negativo del
concorso internazionale indetto nel 1988 dal Comune di Carpi, cui hanno
partecipato oltre 100 studi di architettura con ipotesi che vanno
dall’abbattimento dell’esistente alla sua conservazione alla ricostruzione
filologica dell’insieme alla destinazione parziale a parco, ha compromesso
la possibilità di una soluzione complessiva organica. Si è proceduto invece
per interventi parziali, come il ripristino di una baracca, lasciando il
resto in un preoccupante degrado.
Il MEIS di Ferrara avrà il merito di non essere un Museo dedicato
esclusivamente alla Shoah ma di includerla, anche nel titolo, all’interno
della storia dell’ebraismo, mentre il progetto del gruppo SCAPE ha il
pregio di essere decisamente dissonante dal complesso delle carceri nel
quale s’inserisce e del quale è stato deciso, seppure tra molte polemiche,
di preservare almeno parzialmente la riconoscibilità. Tra i memoriali
eretti a ricordo delle vittime del terrorismo mi soffermo su quello, a mio
avviso straordinario, dedicato alla strage di Ustica. Realizzato nel 2007
dall’artista francese Christian Boltansky, ricorda l’attentato all’aereo
dell’Itàvia del 1980, dove 81 civili persero la vita. Il “museo per la
memoria di Ustica” non è sul sito del trauma: la strage ha avuto luogo a
chilometri di distanza e in un non-luogo tra il cielo e il fondo del mare.
Ha sede in uno spazio industriale anonimo come gli ex Magazzini dell’ATC,
completamente inventato come opera d’arte totale intorno a un
oggetto-reperto che è il vero sito del trauma: il relitto dell’aereo,
composto a sua volta a posteriori e in un altro luogo con i 2500 frammenti
rinvenuti nel fondo del mare. E’ accessibile solo a distanza ravvicinata,
circuendolo lungo il passaggio costruito come parte essenziale della
scenografia memoriale. Nessuna immagine, nessun reperto rivelano
l’identità delle vittime. La loro presenza aleggia grazie alle voci, che
non sono però le loro: difficilmente distinguibili se non a distanza
ravvicinatissima, porgendo l’orecchio agli specchi neri che le emettono e
che cingono il relitto del velivolo; tanti quante furono le vittime. Ma
sono dialoghi che appartengono al prima, alla normalità che precede, non
alla paura e all’angoscia degli ultimi attimi. Mentre i reperti, anch’essi
invisibili, sono raccolti entro sarcofagi neri. Di forte impatto visivo ed
emotivo, il memoriale di Boltansky ci tiene in uno stato di sospensione e
disorientamento; vieta ogni immedesimazione con le vittime e con i loro
oggetti: se questi ultimi sono nello stesso spazio dell’aereo, dunque in
fondo al mare, noi spettatori siamo in volo, tra le chiacchiere dei
passeggeri, non ancora vittime, ma di fronte al luogo del loro sacrificio.
Una grande sobrietà informa il Museo-Monumento di Carpi, progettato dal
gruppo milanese BBPR e inaugurato nel 1973. Ludovico di Belgiojoso, Gian
Luigi Banfi, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers hanno pagato la
loro militanza antifascista con l’esilio, il carcere e la deportazione:
Banfi è morto nel campo di Mauthausen-Gusen dove è stato rinchiuso fino
alla Liberazione anche Belgiojoso mentre Rogers è stato costretto
all’esilio in Svizzera. Anche dopo la morte di Banfi nel ’45, di Rogers nel
’69 e di Peressutti nel ’76, i progetti hanno continuato a essere firmati
collettivamente. Protagonisti del razionalismo architettonico, i BBPR hanno
creduto fermamente nella forza etica e profetica dell’architettura e nel
binomio modernità-memoria, come attestano i memoriali da loro progettati,
da quello nel cimitero Monumentale di Milano del ’46 a quello nel campo di
Gusen del ‘67, da quello a Ravensbruck dell’82 a quello all’ex deportato a
Sesto S. Giovanni del 1998, opere essenziali, asciutte, aliene da accenti
celebrativi e retorici. Nel Palazzo dei Pio, dove si accede attraverso il
cortile delle stele poli-direzionate e vergate con i nomi dei campi di
concentramento, le 12 sale, rigorosamente bianche, sono attraversate dalle
frasi tratte dalle lettere dei condannati a morte della Resistenza
Europea, oppure decorate dai graffiti di Picasso, Cagli, Guttuso, Leger e
Levi. Solo l’ultima stanza è completamente rivestita dai 15.000 nomi dei
deportati italiani. Gli oggetti a loro appartenuti, poi, non sono ostentati
ma visibili solo intenzionalmente, affacciandosi sui grandi pozzi di pietra
serena progettati da Albe e Lica Steiner. Il Museo esprime,
nell’architettura non meno che nell’allestimento museale, una politica
della memoria che, come attesta la dedica del Museo-Monumento, accomuna ma
nello stesso tempo distingue la deportazione politica da quella razziale.
Per la prima volta a quest’ultima, inglobata precedentemente nell’alveo di
quella politica, viene riconosciuta una identità, dunque una storia e una
memoria autonome. Tra le ragioni di tale riconoscimento ci sono certamente
la presenza nelle vicinanze del campo di Fossoli, la coincidenza temporale
tra la decisione di istituire il Museo e il processo Eichmann a Gerusalemme
e, ovviamente, le traversie vissute dagli stessi progettisti.
Con gli anni Novanta si assiste invece a una nuova a-simmetria, a un nuovo
sbilanciamento: da comprimaria, la deportazione razziale assurge a
protagonista mentre a entrare nel cono d’ombra è ora la deportazione
politica, come prova l’odissea del memoriale italiano ad Auschwitz,
realizzato per volontà dell’ANED, altro capolavoro dei BBPR, colpevolmente
smantellato dalle autorità polacche e ora in procinto di raggiungere
Firenze dove sarà per fortuna reinstallato; il pretesto è l’inadeguatezza
alle norme museali, la realtà è il suo palese contenuto politico. Come
osserva acutamente David Bidussa: “Si è dissolta la memoria
dell’antifascismo; la memoria delle diverse deportazioni – politica,
civile, militare – è arretrata. Due condizioni che chiamano in causa la
fisionomia culturale dell’opinione pubblica per la quale la dimensione
pubblica della Shoah sembra aver guadagnato spazio a scapito di
qualcos’altro e per dare spazio a una rinnovata “indifferenza”. A scapito
del 25 aprile, ad esempio, ormai quasi ignorato nelle scuole, evocato in
sparute e spesso rissose manifestazioni. Con il Memoriale che inaugura tra
due giorni anche Bologna si mette al passo con i tempi. Il doppio muro di
ferro progettato dal gruppo romano Set Architects, che evoca nella
partizione modulare quella di una baracca del campo di sterminio di
Buchenwald, s’incunea prepotentemente tra i due setti progettati da Ricardo
Bofill sul piazzale monumentale e un pò spettrale retrostante la stazione.
La necessità di un nuovo memoriale dedicato esclusivamente alla Shoah, in
un panorama già così ricco di attestati alla memoria di tutte le vittime e
la sua posizione, in un luogo come la stazione, così dolorosamente
simbolico per Bologna ma forse non altrettanto per la deportazione ebraica,
destano qualche perplessità. Perplessità che, lungi dal porre in
discussione la qualità artistica dell’opera, premiata, tra gli altri,
dall’autore dello straordinario memoriale di Berlino, nascono da una
preoccupazione che esprimo attraverso le parole di Claudio Magris: “Non
basta condannare e aborrire. Occorre capire come e perché la Shoah ha
potuto aver luogo. Anche la Shoah esige la comprensione storica e la
storia, come sappiamo, non è né giustiziera né giustificatrice, bensì è — o
dovrebbe essere — intelligenza delle cose. Ma con ciò si pone una
contraddizione, in quanto la Shoah si è trasformata da storia criminosa a
evento metafisico, a male assoluto, e rifiuta di essere compresa, superata
in quel giudizio storico che è, diceva Croce, “oltre il rogo” e dunque più
sereno che furente”. La stessa preoccupazione, a ben vedere, gli stessi
dubbi e quesiti che accompagnano da 16 anni il Giorno della Memoria, che
siamo qui a celebrare.
Trovo illuminante il saggio di Elena Loewenthal “Contro il giorno della
memoria”, un saggio acuto, provocatorio, sferzante, che scuote dal torpore
che avvolge spesso questo Giorno, pure così importante, così faticosamente
conquistato, così irrinunciabile, ma di cui si è perso forse il senso
iniziale: ricordare ma per riflettere sulle nostre responsabilità, sulle
responsabilità dell’Europa intera nei confronti dello sterminio di 10
milioni di esseri umani, sui silenzi, le complicità, l’indifferenza che lo
hanno reso possibile. Un problema di storia, dunque, prima ancora che di
memoria. “Concepito e nato per ricordare l’orrore che l’Europa ha visto e
annidato negli anni Quaranta del secolo scorso”, ragiona Loewenthal, “il
GdM è diventato ben presto una specie di (postumo) atto di omaggio agli
ebrei sterminati. Una ricorrenza non introspettiva, bensì transitiva…Ma da
quando in qua la storia appartiene a chi ci muore dentro senza lasciare
altra traccia se non una voluta di fumo da un camino altissimo? La storia è
di chi la fa, di chi la vede, di chi c’è e viene dopo chi c’era. Non di chi
non c’è più per via di quella storia…La memoria deve servire a tutt’altro.
A educare nella direzione opposta. A divulgare il male per tenersene
lontani. A riconoscere quella storia come propria. Italiana. Altro che
ebraica… La memoria della Shoah è di tutti gli altri fuorchè degli ebrei..”
Occorre, suggerisce, “mettersi nei panni dei soldati russi che entrarono ad
Auschwitz il 27 gennaio 1945. Guardare al campo e alla storia che racconta
da quella prospettiva: provare di fronte a quella scoperta lo sgomento di
chi aprì i cancelli e si trovò davanti il pianeta Auschwitz”.
La messe di iniziative che ingorga allora i giorni intorno al 27 gennaio è
prova del successo dell’iniziativa, della sua buona salute? Certamente no
per Loewenthal che ha deciso di declinare ogni invito. E neppure per
Bidussa che così ragiona: “Nella monumentalizzazione della storia e dunque
nella sua trasformazione da strumento a esposizione retorica risiede la
crisi del Giorno della Memoria nell’epoca del suo “trionfo”. Proprio perché
questo trionfo non avviene con la crescita di un sapere critico ma con la
ripetizione di una procedura, con l’affermazione di un “rituale”. Qualche
alternativa? “Il silenzio. Non l’affanno di voci, parole, immagini”, è la
soluzione drastica di Loewenthal. Un silenzio da non confondere con il
nulla.
Lo stesso silenzio, forse, la stessa afasia, invocata da storici, filosofi,
artisti e architetti contro una frenesia memorialistica che porta
all’inflazione di monumenti, memoriali e musei, in una
rincorsa-competizione tra memorie e tra vittime. A che scopo? Tentare,
inutilmente, di rappresentare, di mostrare ciò che non si può vedere e che
nessuno ha visto, neppure gli stessi morti di Auschwitz: così ragiona lo
psicanalista francese Gérard Wajcman nel suo testo fondamentale, L’object
du siècle. Qual è, s’interroga, l’oggetto di un secolo che «ha inventato la
distruzione senza rovina»? L’assenza, quell’invisibile che è il «cuore
assoluto di questo secolo moderno» e che coincide con il baratro della
Shoah. Come rendere visibile l’assenza, come affermare una negazione? Solo
l’arte, il cui compito è quello di mostrare, è in grado di «far vedere ciò
che non è rappresentabile né a parole né in immagini». Una grande sfida,
che solo gli artisti tedeschi, chiamati a commemorare le vittime di crimini
da loro stessi commessi, potevano trovare il coraggio di raccogliere. Se il
desiderio di distinguersi dalla generazione dei padri li porta a
trasformare le loro città in cantieri della memoria, l’impulso a
dimenticare per costruire una identità nazionale aliena da sensi di colpa,
li spinge alla rimozione. E di quest’ultima i “contro-monumenti” sono la
fedele rappresentazione.
Così definiti dallo storico americano James Young pensando al lavoro
dell’artista tedesco Jochen Gerz, i “contro-monumenti” traducono in arte la
radicalità del pensiero di Wajcman: prevedono infatti, nella stessa
concezione, la loro sparizione. Racconta Gerz: “il fattore più importante
della mia vita rimane la guerra che non ho combattuto. Questo spiega
l’importanza del concetto di assenza nella mia vita e nel mio lavoro… Io
stesso da piccolo non ho vissuto «niente», e anche questo appartiene alla
memoria. All’inizio pensai che questo fosse capitato solo a me. Più tardi
compresi che questo niente, in quanto assenza, era stato vissuto non
soltanto dalle persone della mia età, ma anche da coloro che, pur non
essendo bambini, non sapevano nulla oppure non potevano o non volevano
sapere. Non si tratta soltanto di cittadini tedeschi, ma anche di quelli
dei paesi occupati che videro o ebbero anche solo il sentore della
scomparsa dei loro vicini. Che cos’era questo «niente»? La mia esperienza
personale venne inghiottita da ciò che venni a sapere quando era tutto
finito ed era troppo tardi. L’infanzia. La mia vita. Scomparve. Fu allora
che cominciò la lenta ricostruzione dell’«io» frantumato”. Nel 1986 Gerz
realizza insieme alla moglie Esther Shalev l’opera che lo ha reso famoso:
una colonna di piombo alta dodici metri, collocata alla periferia di
Amburgo abitata prevalentemente da immigrati, che si abbassa
progressivamente fino a scomparire. Grazie alle 70.000 firme e scritte dei
cittadini sulla sua duttile superficie, la colonna sprofonda nel giro di
sette anni. Da allora, la sua esistenza è testimoniata dalle Istruzioni
d’uso collocate a terra, redatte in sette lingue, l’ultima delle quali
recita: «Perché nulla può ergersi al nostro posto contro l’ingiustizia». Il
“Monumento contro il fascismo, la guerra, la violenza – per la pace e i
diritti umani”, questo il titolo dell’opera, rivoluziona l’identità del
monumento. Già il titolo dichiara trattarsi di un monumento “per” e
“contro”, che invita all’azione e non alla semplice commemorazione. Nello
sparire materialmente, trasforma gli spettatori del monumento alla memoria
in memoria del monumento. Una memoria che, proprio perché confiscata al
monumento di pietra, diventa la memoria viva dello spettatore. È proprio la
sua firma, cioè la sua testimonianza, a provocarne la sparizione fisica. Lo
spettatore diviene in tal modo co-autore, complice dell’artista nella
realizzazione dell’opera. Firme ma anche insulti, svastiche, frasi
antisemite e xenofobe: non solo da parte di fascisti e razzisti ma anche da
chi non sopporta l’«indifferenza» di quel monumento, il suo non esprimere
emozioni, non consolare né riconciliare; il suo esigere provocatoriamente
una presa di posizione e un’assunzione di responsabilità. Il monumento
diviene così uno «specchio sociale» che riflette le attitudini e i
sentimenti della popolazione, oltre un formale e deferente rispetto. Il
“contro-monumento” di Gerz, opina Wajcman, crea materialmente un ossimoro:
è un monumento vivente. Il che è il contrario del monumento […]. Quello che
vediamo è che non c’è niente da vedere. Vediamo la rimozione della memoria.
Ciò significa che il monumento di Gerz […] non è un luogo in cui la memoria
si pietrifica nella storia, è un oggetto che chiama i soggetti a un atto
della memoria. Rende i soggetti dei portatori di memoria e fa di ciascuno
un monumento”. Se il difetto principale dei monumenti, soprattutto quando
enfaticamente rappresentativi, è di espropriare lo spettatore della
possibilità di partecipare originalmente al processo di elaborazione della
memoria, nel “contro-monumento” di Gerz il testimone passa dal monumento
alle persone vive. Scomparso il monumento, l’artista lavora direttamente
con la gente, soprattutto immigrati, in condizioni urbane disagiate, per
costruire una cultura di pace e di convivenza, “per trasformare i nemici di
ieri in amici di oggi”. Nella convinzione che la consapevolezza storica e
non la contemplazione passiva sia l’unica strada perché ciò che è accaduto
n
on riaccada mai più.
I musei, i monumenti e i memoriali presenti in questa regione abbracciano
una vasta gamma di espressioni artistiche, dalla rappresentazione mimetica
alla sobrietà astratta, dal rispetto topico dei siti del trauma alla loro
invenzione scenografica, fino alla ipotesi di monumento che abbraccia un
intero paesaggio. Alcuni prevedono la partecipazione attiva dello
spettatore, altri lo tengono a distanza, alcuni lavorano sul presente,
sulla formazione e la prevenzione, altri si preoccupano unicamente della
conservazione filologica del passato. Per dirla con il filosofo Tvetan
Todorov, anche gli artisti distinguono tra la memoria “letterale”, che
considera l’avvenimento passato insormontabile e intransitivo e la memoria
“esemplare” che “permette invece di utilizzare il passato in vista del
presente, di approfittare delle lezioni, delle ingiustizie subite, per
combattere quelle che ci sono oggi”. E’ il presente, insiste Todorov, che
«fa del passato l’uso che vuole”. Personalmente, prediligendo la sobrietà
sulla ridondanza, l’afasia sull’eloquenza, la sottrazione sull’enfasi e il
coinvolgimento dello spettatore sulla delega, ritengo che l’approdo di Gerz
costituisca l’esito più radicale del processo di messa in discussione del
monumento. Come procedere oltre questo “grado zero”? Continuare a far
scomparire monumenti, come ha fatto del resto lo stesso Gerz in altre opere
o altri artisti tedeschi come Horst Hoheisel? Perché quella radicalità
potesse abbandonare l’alveo del gesto unico, eroico, titanico, divenire
metodo per proliferare e diffondersi, occorreva compiere un passo indietro
sulla strada dell’invisibilità del monumento. E’ quanto compiuto da un
altro artista tedesco, Gunter Demnig, con il progetto degli Stolpersteine,
le “pietre d’inciampo”, che molti di voi conoscono e che Bologna non ha
ancora adottato. Semplici sampietrini, della misura standard di 10 x 10 cm,
recano incisi, sulla superficie superiore di ottone lucente, pochi dati
identificativi, anticipati dalla scritta «qui abitava»: nome e cognome del
deportato, data di nascita, data e luogo di deportazione, data di morte in
un campo di sterminio, quando nota. Sono interrati nel marciapiede
prospiciente l’abitazione del deportato, proprio sulla soglia, sul crinale
tra la vita normale nella propria casa e tra gli affetti, e un destino
ignoto seppure tragicamente annunciato. Non sono un corpo estraneo alla
città, ma parte integrante di essa, una delle tante pietre che la
pavimentano. Discrete perché non s’impongono alla vista se non quando vi si
inciampa ma allo stesso tempo radicate e permanenti…vandali permettendo!.
La loro unicità risiede nel fatto di non occupare una postazione unica,
deputata alla memoria, ma di essere disseminati nelle città, nelle regioni,
negli Stati, di essere cioè un monumento diffuso a scala europea: dal 1992,
quando è stata installata la prima pietra a Colonia, a oggi, oltre 56.000
Stolpersteine sono stati collocati in 20 paesi europei. L’idea di Demnig è
di posizionarne personalmente uno per ogni deportato: una meta impossibile
da raggiungere, occorrerebbero migliaia di anni, un tempo veramente
biblico. Gli Stolpersteine saranno sempre un’opera aperta, non finita, e
questo ne accresce la valenza etica ed eretica.
Monumento diffuso: un altro ossimoro, ancora più radicale di “monumento
vivente” o di “monumento invisibile”. Anziché un monumento da contemplare
gli Stolpersteine costruiscono una mappa della memoria in fieri da
percorrere, che si espande nel centro storico, nei quartieri borghesi e
residenziali ma anche in quelli popolari e nelle borgate, ovunque siano
vissuti gli oppositori al nazi-fascismo. Ogni quartiere ha il “suo”
monumento ai “suoi” caduti, ma hanno tutti lo stesso valore. Possiamo
definire allora gli Stolpersteine il primo memoriale anti-gerarchico,
democratico: uguali per forma, dimensione, materiali, carattere
tipografico, sono diversi solo per le vite che raccontano.
”Il modo più giusto di onorare quei morti e i pochi sopravvissuti sarebbe
ricordarli uno per uno, ognuno eterno, protagonista di una Storia Sacra”,
opina Claudio Magris, cui fa eco Lowenthal: “restituire a ciascuna vittima
il proprio nome è doveroso perché il nome è segno di vita, la traccia che
ogni individuo lascia nel mondo”. E il senso delle “pietre d’inciampo” è
proprio di restituire attraverso il nome dignità di persone a chi è stato
ridotto a numero e poi in cenere e, soprattutto, di “riportare a casa” chi
vi è stato brutalmente strappato per non farvi più ritorno. Come chiedevano
i ragazzi della scuola di Marzabotto, le pietre rendono tangibile,
scomponendolo e frazionandolo, un numero astratto e incommensurabile come
10 milioni. Lo Stolperstein è il più piccolo memoriale concepibile, nel
luogo che identifica, insieme al nome, ogni singolo deportato; non una
tomba ma il luogo dove è possibile sostare per ricordare le vittime della
“distruzione senza rovina” di cui parla Wajcman. A partire da quello di
Washington, dedicato nel 1981 ai caduti nella guerra del Vietnam, ma ancora
prima da quello di Carpi, come abbiamo visto, si sono nel tempo
moltiplicati i monumenti e i memoriali che ricordano discretamente i caduti
nominandoli: la peculiarità degli Stolpersteine è che quei nomi non sono
riuniti in una lapide o su un monumento o non sono letti uno dopo l’altro
come in molte parti del mondo in occasione del Giorno della Memoria, ma
sono disseminati nei luoghi che li hanno visti vivi per l’ultima volta. E
chi oggi abita nello stesso palazzo, o vi passa occasionalmente,
inciampando in quelle pietre, non può non interrogarsi su come si
comporterebbe oggi se un inquilino della sua casa, un vicino o un
concittadino corresse gli stessi pericoli. Il passato, che sembra tanto
lontano da noi, si avvicina così drammaticamente e diviene parte della
nostra vita quotidiana. Gli Stolpersteine sono sì dedicati alle vittime ma
vivono in mezzo a noi, raccontano succintamente una storia che vieta ogni
indifferenza – proprio la parola che Liliana Segre ha voluto all’ingresso
del memoriale al binario 21 di Milano – e pretende una risposta, positiva
o negativa, un fiore o un barattolo di vernice per cancellare quella
storia.
Ancora, gli Stolpersteine sono un potente strumento per conoscere, anche
attraverso la geografia dei luoghi, la storia, per sfatare luoghi comuni,
per scoprire complicità e indifferenze degli “italiani brava gente”,
alleati fedeli e solerti dell’occupante tedesco e sguinzagliati in tutte le
città a caccia degli oppositori. Sono anche un formidabile strumento contro
il revisionismo e il negazionismo, perché la veridicità delle informazioni
incise nelle pietre e verificate negli archivi e nei Libri della memoria,
non è confutabile.
Contro la guerra tra le memorie e tra le vittime poi, le “pietre
d’inciampo” sono dedicate indistintamente a tutti i deportati, razziali,
politici, militari, Rom, sinti, omosessuali, testimoni di Geova, disabili,
vittime alla pari del nazi-fascismo tra il 1933 e il 1945. Il progetto
nasce infatti nel ’90 per ricordare i 50 anni dalla deportazione di 1000
sinti a Colonia nel 1940.
Infine, sono i famigliari a commissionare le pietre ma, una volta
installate, esse diventano parte della città, appannaggio di tutti i
cittadini che ne diventano i custodi, responsabili della loro incolumità.
Così una memoria privata, difesa gelosamente per anni, diventa pubblica,
patrimonio della collettività.
Da sei anni, ogni anno, a Roma e in molte altre città e regioni italiane si
celebra il Giorno della Memoria installando le pietre d’inciampo: i parenti
delle vittime, provenienti dai quattro angoli del mondo, riuniti spesso per
la prima volta, i rappresentanti delle istituzioni, quelli della comunità
ebraica, le associazioni dei partigiani e degli ex deportati, gli studenti
coinvolti nel progetto didattico e i loro insegnati, semplici cittadini, si
raccolgono intorno all’artista che inginocchiandosi per installare le
pietre rende omaggio alla memoria delle vittime. Cerimonie che sono allo
stesso tempo una lezione di storia, una riunione di famiglia, un momento di
raccoglimento per recitare un kaddish, la preghiera ebraica per i defunti.
A fronte della frenetica ricerca di novità che caratterizza il Giorno della
Memoria, l’installazione degli Stolpersteine prevede ogni anno la
ripetizione dello stesso rituale, come si conviene del resto a una
ricorrenza: sempre uguale ma sempre diverso, come quelle pietre che
tappezzano l’Europa per ricordare un destino comune ma occorso a milioni di
individui tutti diversi. Grazie”.