Sarà visibile al pubblico da sabato 14 febbraio, a Palazzo Fava di Bologna, la mostra internazionale “Da Cimabue a Morandi. Felisina pittrice”, curata da Vittorio Sgarbi.
Tra le novità e le anteprime vi segnaliamo, come ha annunciato Sgarbi in conferenza stampa, che il quadro “La Fortuna con la corona in mano” che appare anche sulla copertina del catalogo dell’esposizione, “è entrato a far parte della mostra come Sirani ed è stato di recente attribuito alla mano di *Guido Reni“*( vedi nota in fondo). Segnaliamo anche che l’opera partirà, dopo la mostra, alla volta di Milano prestata al padiglione Italia dell’Expo 2015
La mostra presenta 180 opere che vengono da spazi pubblici e da collezioni private ed è un’importante ed imponente testimonianza del lavoro artistico di maestri dal Medioevo al Novecento, che testimoniano la valenza artistica della città di Bologna nell’arco di 2 secoli.
“Una mostra con un’importante funzione pedagogica” per gli spettatori che non finiscono mai di imparare e di scoprire cose nuove. E così Bologna ” città di pigri e morti, che vedono le opere solo se le si portano al bar” (sempre dal discorso di Sgarbi in occasione della presentazione alla stampa) avrà l’occasione di vedere i maestri dell’arte dialogare tra loro lungo secoli di storia.
A ottant’anni dalla celebre lezione inaugurale dell’anno accademico di Roberto Longhi all’Università di Bologna sulla grande tradizione artistica della città, fino ad allora subordinata dalla critica a Firenze e a Venezia, la mostra intende riproporre non solo i principi e il metodo dell’illustre studioso, ma anche ripercorrere la storia dell’arte italiana, prima che bolognese, attraverso una serie di significative testimonianze dalla fine del Duecento al Novecento: da Cimabue a Giorgio Morandi, consacrato proprio da Longhi come “uno dei migliori pittori viventi d’Italia”.
La mostra si svolge nelle sale dove i tre giovani cugini Ludovico, Agostino e Annibale Carracci, nel 1584, ricevettero dal conte Filippo Fava l’incarico di realizzare la decorazione ad affresco della sala principale del nuovo palazzo di famiglia.
Nella magistrale lezione del 1934, Longhi approfondì il nodo fondamentale della loro riforma naturalistica, rifondando di fatto, con le sue argomentate riflessioni, anche gli studi sull’altra metà del Seicento pittorico italiano, quello non caravaggesco.
“Qui, insomma, io avverto che è il segreto dei Carracci: in questa epopea, in questo romanzo storico, immaginato sulla grande pittura precedente, la quale viene riassunta non già come obbligazione metodica, ma come costume insostituibile, quasi come soggetto di grado piú profondo per la propria pittura nuova e diversa, di affettuoso timbro lombardo. Ecco l’errore di voler sceverare e spuntare, ecletticamente, i frammenti di Tiziano, di Raffaello, di Correggio, di Michelangelo e dell’antico, nelle opere dei Carracci: mentre è l’antica, ormai olimpica, cultura italiana che fusa e impastata come costume civile, latino e italico, transita, rivive, si atteggia nella tenera illusiva moderna epidermide dei Carracci”.
La mostra è dunque dedicata all’illustre studioso, come il suo stesso titolo evidenzia, citando quell’antologia in cui Gianfranco Contini scelse e ordinò alcuni saggi che Roberto Longhi aveva dedicato alla pittura italiana, da Cimabue a Giorgio Morandi. Il titolo rende omaggio al contempo a Carlo Cesare Malvasia e alla sua Felsina pittrice, la fonte più importante e autorevole per la storia della pittura bolognese dal medioevo all’età barocca, uscita nel 1678.
Nelle sale affrescate dai Carracci e dalla loro scuola sarà possibile seguire lo svolgimento della storia dell’arte a Bologna attraverso una ricca selezione di oltre centosessanta opere, tra dipinti e sculture, provenienti da chiese, musei comunali, istituzioni e importanti collezioni private. Il fine è di segmentare una materia così vasta e articolata in episodi coerenti in modo tale da fornire al visitatore una duplice possibilità di lettura, sia dei momenti cruciali sia dello sviluppo complessivo della storia artistica cittadina, alla quale hanno contribuito in maniera determinante anche grandi artisti “forestieri”, primo tra tutti Raffaello, di cui si espone l’Estasi di santa Cecilia dipinta attorno al 1515 per la cappella funeraria fatta erigere da Elena Duglioli Dall’Olio nella chiesa di San Giovanni in Monte (solitamente esposta alla Pinacoteca Nazionale di Bologna).
Accanto a questo capolavoro, figurano, in un avvincente percorso che tocca oltre sette secoli di storia, quelli dei più grandi artisti bolognesi o attivi in città, tra cui, solo per citare i più noti, Giotto, Giovanni di Balduccio, Vitale da Bologna, Nicolò dell’Arca, Marco Zoppo, Ercole de’ Roberti, Parmigianino, Amico Aspertini, Alfonso Lombardi, Girolamo da Carpi, Nicolò dell’Abate, Bartolomeo Passerotti, Ludovico Agostino e Annibale Carracci, Domenichino, Mastelletta, Guido Reni, Simone Cantarini, Guercino, Guido Cagnacci, Carlo Cignani, Giovanni Antonio Burrini, Marcantonio Franceschini, Donato Creti, Giuseppe Maria Crespi, Ubaldo e Gaetano Gandolfi, Antonio Basoli, Raffaele Faccioli, Renato Bertelli, Carlo Corsi e Giorgio Morandi.
* Ecco la nota relativa al quadro La fortuna con la corona in mano:
Grazie a una segnalazione delle restauratrici Laura Cibrario e Fabiola Jatta e con il permesso dell’Accademia di San Luca posso anticipare alcuni risultati di un restauro terminato pochi mesi or sono di cui non ho potuto tenere conto nella compilazione della scheda relativa alla versione della Fortuna di Guido Reni presente nelle collezioni dell’Accademia romana. Qui, sulla scorta del parere dei più grandi studiosi del pittore, Denis Mahon e Stephen Pepper, e di alcune fuorvianti indicazioni inventariali, avevo presentato la tela come di mano di Giovanni Andrea Sirani, con ritocchi di Guido Reni.
Nel corso dell’intervento conservativo, finanziato da Banca Fideuram, una radiografia ha messo in evidenza, coperto da una successiva pittura, un borsello di monete nella mano della Fortuna, poi sostituito da una corona. Ciò rende il dipinto molto più interessante, sussistendo a questo punto solo pochi dubbi sul fatto che questo sia il dipinto realizzato da Antonio Giarola nello studio di Guido Reni per monsignor Altoviti, che il maestro bolognese decise di ritoccare per renderlo autografo, per fare dispetto all’abate Gavotti. il proprietario della prima versione della Fortuna che aveva contravvenuto ad alcune indicazioni del pittore. I termini di questo intervento, probabilmente non così estesi come raccontava l’Altoviti, e quindi riportato da Filippo Baldinucci, saranno discussi in una specifica pubblicazione dedicata al restauro. Resta il fascino di potere ammirare in mostra una tela al centro di una così interessante vicenda.