Surreale come mai ci saremmo potuti aspettare non più tardi di 10 anni fa. Coloro che hanno comunque scelto di affrontare questo week end di festival per vedere gli Offpring scuotono la testa:”Il punk è morto”. E infatti la Bill di questo I-Day è prevalentemente Indie e orientata verso sonorità che negli ultimi anni hanno reso il Rock più modaiolo e di massa. Va registrato comunque l’entusiasmo di oltre 10.000 fans accorsi il primo giorno che hanno letteralmente spazzato via -almeno ai numeri- i presenti del giorno dopo, che sono stati circa la metà. Questo Sabato 3 Settembre fa registrare un’umidità molto forte, che condiziona l’inizio del festival portando il pubblico ad affollare gli stand della birra e, soprattutto, quello della Jack Daniel’s, che ha pensato bene di elargire gratuitamente Jack&Cola ai presenti. In questo scenario fanno il loro ingresso gli Heike Has The Giggles, band locale che sta affrontando il suo primo importante tour in giro per l’italia e si presenta con una gran voglia di graffiare i presenti. Il terzetto riesce nel suo intento facendo dimenticare per tutta la durata della gig il caldo e tutto il resto. Molto compatti, freschi e soprattutto ormai pronti per calcare le assi di un evento di questa portata, gli HHTG rappresentano, oltre che una bellissima sopresa, il nuovo che avanza. Ben più che una band “da tenere d’occhio”. Un lento cambio di palco consente alla gente di confluire dentro all’Arena Parco Nord, dando modo ai Morning Parade di esibirsi di fronte a un discreto numero di persone. La band non convince particolarmente, arrivando per lo più a coloro i quali conoscevano già i loro brani. Spiccano l’iniziale ‘Blue Winter’, ‘Your Majesty’ e la conclusiva, arcinota, ‘Under The Stars’. Quando la band abbandona il palco a regnare è la noia. Per fortuna durerà poco perchè è già l’ora di una delle performance più attese dai presenti, quella dei ‘The Wombats: il classico gruppo capace di mettere d’accordo tutti. Si parte con ‘Our Perfect Disease’ e la reazione entusiasta del pubblico fa capire quanto questa band sia amata attualmente, in questo paese come altrove. Segue immediatamente ‘Kill the Director’, che porta la performance sui giusti binari. Matthew Murphy e soci continuano sullo stesso tenore, snocciolando in rapida sequenza ‘Backfire at the Disco ‘, ‘1996’ e ‘Moving to New York’. Conclusione affidata a’Let’s Dance to Joy Division’. Manco a dirlo, il brano più acclamato dell’intera scaletta. Verrà infatti intonato all’unisono dall’intera audience. Ancora un ultimo capitolo all’insegna della noia più assoluta, è l’ora degli White Lies, ovvero uno di quei motivi per cui è un bene che Ian Curtis non sia più tra noi. Se potesse vedere questa band, avrebbe sicuramente trovato un buon pretesto per porre fine in ogni caso alla sua permanenza terrena…Continua..
Non si capisce dove la proposta di questa band voglia andare a parare, anche se quanto pare lo scopiazzare dalla new wave del passato, addolcendola con sprazzi di pop, è sufficiente per avere dalla loro parte la considerazione di una grande fetta di pubblico, il resto è storia di una tuttaltro che imprevedibile fila agli stand. A dare una svolta alla giornata ci pensano i Kasabian -Co headliner dell’evento- e il loro palco stellare. Ogni particolare sembra studiato per colpire pesantemente il pubblico. Lo stesso volume, nonchè l'(ab)uso dei bassi, faranno tremare l’intera arena per tutta la durata della performance. Apertura affidata a ‘Club Foot’, che infiamma il pubblico a partire dalle sue prime note. Il tenore del live è messo in chiaro da subito e non accenna a calare nemmeno quando, durante la tripletta ‘Velociraptor!’, ‘I.D.’ e ‘Thick As Thieves’, accusa il colpo per via di un impianto audio non proprio impeccabile. Un ultimo sussulto con ‘LSF’, prima della chiusura in grande stile affidata a ‘Switchblade Smiles’ e ‘Fire’, molto forte dal punto di vista scenografico. Il concerto si conclude tra gli applausi ma lascia un che di amaro in bocca per il modo in cui le nuove leve come i Kasabian vengano sopravvalutate e degnate di una considerazione che va ben oltre il reale valore artistico della band. Dopo l’ennesimo, lunghissimo cambio di palco toccherà a una band che può ben annoverarsi nella categoria sopra citata, sebbene il numero dei presenti dia loro una valida e ampia ragione di esistere. Quello che vedremo accadere sul palco con gli Arctic Monkeys però, ha sicuramente dato ai più scettici un valido motivo in più per seguire con attenzione ciò che il giovane quartetto di Sheffield proporrà d’ora in avanti. Non è mancato davvero nulla, attitudine, trasparenza, presenza e un inizio affidato alle quattro ‘Library Pictures’, ‘Brianstorm’, ‘This House Is a Circus’ e ‘Still Take You Home’, eseguite una di seguito all’altra, senza fronzoli nè spazio per pompose presentazioni. Se, considerata anche la giovane età, ci sono ancora dei margini di miglioramento, non abbiamo che da essere felici per il futuro di questa band. ‘The Hellcat..’ verrà intonata dall’intero pubblico, mentre ‘The View From The Afternoon’ è una dimostrazione di presa di coscienza delle lezioni di Stoner apprese da J. Homme, con chitarre ruvide esaltate con sfacciata disinvoltura e un pubblico Indie quasi spiazzato da quello che fino a un ora prima veniva giustifica come una sorta di ingenuo difetto di fabbrica. ‘When The Sun Goes Down’ è un tripudio, mentre ‘Fluorescent Adolescent’ e ‘505’ chiudono una setlist che riesce a soddisfare tutti i presenti, consegnando alla storia di questo festival quella svolta stilistica che non era riuscita un anno fa agli Arcade Fire. Promossi.
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