Lunedì 26 luglio, alle ore 21,30 in Piazza Verdi
• Bruno Brunini
• Carla Castelli
• Elio Perrone & Ettore Lupidi
• Valerio Monteventi
• Mavi Gianni & Cesare Ferioli aka Big Mojo
ricorderanno GILBERTO CENTI “guerrigliero della comunicazione”
Letture, video, foto, performances, intereventi musicali
Sono ormai dieci anni dal giorno che Gilberto Centi se ne andò (per sempre). Morì all’ospedale dell’Aquila la mattina del 30 luglio 2000, stroncato, all’età di 53 anni. da un male incurabile che non ha conosciuto né misericordia né dilazioni. L’aveva tenuto nascosto a tutti o, forse, persino lui se n’era accorto tardi.
Per tenere salda la memoria e dare testimonianza del lavoro di Gilberto Centi (poeta, saggista, giornalista, utopista, pensatore libero, osservatore geniale dei movimenti culturali del ‘900, compagno vero), un gruppo di suoi amici e “compagni di strada” ha organizzato una serata in Piazza Verdi (una piazza che Gilberto ha tanto frequentato e vissuto) per ricordarlo attraverso i suoi lavori.
Gilberto Centi scriveva per la rivista Zero in condotta, prima l’aveva fatto per Mongolfiera e Mattina (inserto dell’Unità). Nel 1980 era stato uno degli animatori di Radio Carolina, poi, alla fine degli anni ’90, teneva la trasmissione Radio Blissett.
Era un finissimo recensore di libri e di dischi, straordinarie furono le sue interviste (a Renzo Imbeni, Lucio Dalla, Claudio Lolli, Francesco Guccini, Renato Curcio, Luther Blissett, Roberto Roversi). Bellissimi i suoi “necrologi”: Gian Maria Volontè, Augusto Dall’Olio, Lucio Battisti, Fabrizio De Andrè.
Ne sapeva a pacchi di musica e amava trasmettere la sua cultura musicale ai giovani: “partendo dalla pesante verità che la musica è un arcipelago, che anzi le musiche sono mondi, bisogna (sommessamente) ricordare loro che se ci sono i “trisavoli” della Scienza e della Matematica con i quali occore fare i conti, altrettanto è per i “trisavoli” della Letteratura e dunque della Musica. Non si tratta solo di radici, ma di sapere o non sapere”.
Gilberto Centi era anche un organizzatore di censimenti poetici.
Il primo si tenne, con la collaborazione di Carla Castelli, tra il 1990 e il ’91, “a dieci anni dal Duemila”. Ne uscì una antologia, edita da Momgolfiera, in cui erano contenute tante voci: da Benni a Celli, da Lolli a Menarini, da Roversi a Scalise fino al meno noto o al sommerso, tutta la poesia bolognese era rappresentata in una grande “rassegna”.
Il secondo censimento venne organizzato da Gilberto, sempre insieme alla Castelli, con la consulenza di Niva Lorenzini, nel 1996. L’anno dopo, nel mese di novembre, per i tipi della Pendragon, uscì “Voci di poesia”. Scriveva Centi nella nota introduttiva: “Lo sguardo particolare sui “linguaggi poetici” trovava la sua risposta nel luogo dell’Indagine: Bologna – città di sottile ma instancabile immigrazione – dove dunque le lingue si incontrano e fondono. Le poesie pervenute sono state circa duemiladuecento, confermando così la bontà di un’iniziativa unica in Italia e che aveva ed ha come suo nucleo una scelta ideale: dar voce ai molti che ne sono privi, che trovano difficoltà o non conoscono le vie per comunicare la propria poesia. E qui va fatta una postilla laddove ci si chiedesse cosa ci aspettavamo da questa operazione. Il nodo – in realtà – è “politico”. Il nodo è l’impedimento evidente alla libera circolazione delle idee. “I padroni del pensiero” sono sempre più i padroni dei grandi sistemi mediatici che di fatto filtrano – con metodologie strabiche – le potenzialità diffuse”.
È stato tra gli operatori di poesia a Bologna che più ha dato voce ai giovani e più ha compiuto sforzi concreti perché potessero esprimersi.
Gilberto Centi svolse anche un’importante attività di saggista. Suo fu, nel 1995, per le Edizioni Synergon, “Luther Blissett, l’incapacità di possedere la creatura, una e multipla”.
A questo proposito, è interessante fare alcune considerazioni sulla maniera, assolutamente inedita, con cui Centi costruì il testo di “Luther Blissett”, con un minuzioso e molto preciso lavoro di assemblaggio, avvolgendo la ricca documentazione raccolta nel flusso potente della sua scrittura, a tratti visionanaria. Non ci trovammo davanti a un trattato sociologico, sarebbe stato sin troppo facile per Gilberto dotarsi di una bella prosa da sociologo radical-chic, ma lui non era uno dei tanti “giovanologhi professionisti”. Il suo era prima di tutto un anti-saggio, una narrazione in cui, con stile personalissimo, interrogava e dialogava con l’insieme delle fonti che aveva a disposizione., perché l’unico dispositivo testuale che Centi conosceva era la deriva, senza nessuna roboante certezza..
Il libro di Gilberto su Luther Blissett fu anche la dimostrazione di come anche attraverso un saggio si possa raggiunegere un alto livello d’intensità poetica. Ecco un piccolo esempio: “L.B. è la vendetta del quotidiano meraviglioso e anonimo sull’odioso spettacolo della celebrità… è la poesia della rete… è la possibilità di vivere molte vite a distanza ed essere vissuti da tanti in una sola esistenza
Blissett comunica definitivamente la propria esistenza rivolgendosi ad un interlocutore senza classe né ceto: la rivoluzione sta dove si muove l’intelligenza dell’uomo.
Ma c’è anche un’altra “follia”, se così si può dire, di Luther che a noi sembra particolarmente interessante. Quella dei “seminatori di caos” nel mondo della comunicazione. Il progetto è quello di attaccare i media con simulazione di eventi, falsificazione di dati e interazione manipolatoria.
In effetti, individuare il potere della comunicazione come il più subdolo persuasore e suggeritore di comportamenti e opinioni, è un atto di realismo”.
Ma oltre ad essere affascinato dal Luther Blissett Project (Centi considerava L. B. una risposta possibile, diciotto anni dopo, a quei mostri massmediali che avevano divorato il Settantasette facendo a pezzi un grande movimento antagonista), Gilberto amava intensamente Fabrizio De André..
Su Zero in condotta, la morte del cantautore genovese fu da lui ricordata così: “La bara scura ha l’odore del legno nuovo, lucidato a mano. E pesa. Pesa sul cuore e sulle spalle di quattro-cinque milioni di persone. Dentro c’è un autore di canzoni. Degli italiani il più grande di tutti, compresi quelli recentemente morti e quelli momentaneamente vivi.
E sotto la bara si barcolla, si parla, si telefona agli amici. Ad oltre una settimana di distanza ce ne siamo fatti una ragione: De Andrè è morto per davvero e del suo livello non è rimasto più nessuno. Questa morte scavalca il giorno proiettando tutti – chi più chi meno – verso riflessioni lampeggianti: per esempio sull’opera di questo “amico” andato e il suo destino”.
Del resto, De Andrè, il 15 novembre 1981, era stato la causa dell’abbandono della sua prima esperienza radiofonica a Radio Carolina.
Gilberto era stato criticato dai redattori di “Musica-contro” che, in seguito alla notizia dell’Espresso in cui si affermava che De Andrè aveva votato per la DC, sostenevano che le sue canzoni non andavano più trasmesse.
Centi, salutando i redattori della radio, scrisse: “I compagni con questo caso De Andrè pongono l’eventalità di creare un precedente dal quale non sarebbe più possibile venir fuori e che non trova riscontro se non nella più cupa radiofonia del militantismo di retrovia (canzoni di lotta a colazione pranzo e cena). Certo, è vero che trasmettere un pezzo musicale implica un giudizio politico e di valore sullo stesso, ma è altrettanto vero che ciò non riguarda chi quel pezzo l’ha scritto. Nella musica come nella letteratura, l’opera e l’autore non possono venir “trasmessi” assieme perché “nessuno che abbia scritto l’opera può vivere e rimanere vicino ad essa”. E’ possibile punire J.L.Borges “bruciando” quanto ha scritto? “Il trittico delle delizie” di Bosh è un prodotto della cultura borghese… ma guardatelo quel “dipinto borghese”… E’ meglio farsi una tazza di tè…”.
Gilberto odiava i Soviet, i Politburo, i Pentagoni, “bisognerebbe immischiarsi a titolo personale” diceva, “se si continua a demandare alle ‘commissioni’ ogni zona della vita moriremo commissionati, o per commissione”.
Era anche incostante nei suoi rapporti con gli altri; duro e chiaro fino a rasentare l’essere spietato quando esprimeva opinioni; severo al punto che non permetteva a nessuno di girare attorno alle questioni, di assumere atteggiamenti obliqui.
A dispetto del suo atteggiamento da eremita, a Bologna, Gilberto era molto conosciuto. Il suo goffo guardaroba era frutto di donazioni di amici e conoscenti. Viveva mangiando niente, bevendo parecchia Coca-Cola. Chiedeva spesso prestiti, ma metteva in guardia con ironiche lettere gli amici sulle sue scarse possibilità di far fronte ai debiti e alle cessioni temporanee di denaro (che rischiavano così di divenire definitive).
Viveva, insieme a un “bastardino”, in via del Fossato, in una stanzetta traballante dalle dimensioni di un ripostiglio, dove gli oggetti si incastravano millimetricamente in una sorta “ordine dimesso”, a rischio perenne di un “effetto domino” o di crollo da castello di carte. C’era qualcosa di tecnologico in quei dieci metri quadri, anche se Gilberto continuava a scrivere, battendo sui tasti di una vecchia Olivetti22, con sottofondo la musica gracchiante di una radiolina mai spenta.
La sua era una parlata da adolescente schizofrenico, inconfondibile, con quelle parole che si mostravano sempre così faticose, ma che in realtà erano sempre scelte con cura e calibrate. Quel suo magnifico e nobile interesse per gli altri che lo ha sempre contraddistinto, il suo modo di prendersi a cuore le cose, di viverle con lo stomaco erano vera e propria “ossessione da poeta”.
Anche il messaggio nella sua segreteria telefonica aveva quell’impronta: “6-4-4-8-531, lascia un segno: non andrà perduto”.
La sua scrittura si nutriva solo di personali suggestioni e vaghe immagini, quasi dei presagi. “Arriveranno gli ultimi o i penultimi Antagonisti del nostro tempo e senza confini anagrafici di riconoscimento. / Stanno arrivando. Li riconosceremo da quanto fin qui abbiamo ricostruito o intuito. / Ma chi scrive non è tra quelli che aspettano-l’arrivo-dei-soccorsi./ Ci siamo, con altri minuscoli compiti”.
Gilberto appartiene a una stagione delle nostre vite e a un’epoca che forse si è chiusa. Lui era la vita esplosa in assoluto, in quella stagione aprì le porte della percezione, andò “oltre” il bordo dell’impossibile, ma con l’intensità delle cose condivise… lui la condivisione totale la conosceva bene.
Perché si potesse dare inizio a qualcosa di diverso, prima che il Grande Fiume si smarrisse in mille rivoli dove ciascuno riguadagnava la sua singola identità, forse ci sarebbe stato bisogno ancora della sua scrittura:”Una cosa sola era certa, perché inequivocabile: eravamo giovani. Per il resto di noi risultava soltanto la pervicace proiezione mentale dei Vecchi Geometri del Tempo circa una condizione estranea che credendo di capire si ostinavano a spiegare. Poi dal fastidio passai al sorriso.
Ci ‘pedinavano’ annotando i nostri ‘segnali’ che diventavano dissertazioni sulle terze pagine e gli special televisivi. Ci definivano per possederci e nell’ovvia impossibilità della riuscita come defraudati, caparbiamente si avventuravano in zone intravviste solo dall’aereo.. Così quando scendevano e si inoltravano in piazze, strade e vicoli perdevano l’orientamento, aggravando il loro stato confusionale, utilizzando le sole mappe in loro possesso: quelle ‘fuori corso’ del loro tempo.
Così mostravano a noi quel che non eravamo, irriconoscibili, con radi agganci alla realtà, complessivamente stravolta. Talmente lontani non se ne accorgevano. Nella convinzione non dico d’averci sfiorato ma d’essersi calati in un’età dell’Oro e del Buio che non gli apparteneva.
Eravamo un colorito allarme avanzante, con suddivisioni manichee neanche tra buoni e cattivi.
Leggevano in aramaico quando noi scrivevamo in cirillico.”
IL RICORDO DI CARLA CASTELLI
Gilberto Centi, aquilano, benché nato a Roma, alla fine degli anni Settanta scelse Bologna come sede della sua attività artistica, richiamato dalla speciale atmosfera che si respirava allora nella nostra città. L’Università come centro di aggregazione e fucina, i sussulti del ’77, le radio libere, la capacità di reagire alle stragi avevano fatto di Bologna una meta interessante e Gil vi trovò il terreno adatto alla sua voglia di gridare e sussurrare poesia, divenendone figlio. Da figlio a padre il passo fu naturale e così Gilberto allargò le braccia a quanti, spesso venendo da fuori, chiedevano di essere ascoltati come autori di versi, musica, prosa, riconoscendone il talento o rinviandoli schiettamente a tempi più maturi.
Condusse suggestive trasmissioni notturne a Radio Carolina, entrò nella Cooperativa di poeti Dispacci, presieduta da Roberto Roversi, organizzò due censimenti della Poesia bolognese, curò antologie, pubblicò su vari giornali, collaborò a riviste come Mongolfiera e Zero in Condotta, lesse i suoi testi in varie sale e piazze, fu critico lucido e lungimirante.
Di indole mutevole e carattere non facile, aspro più spesso, ma anche dolce e socievole, Gil amava il rock degli anni Settanta ma anche cantautori come Fabrizio de André, la letteratura della Beat Generation, ma anche i versi di Pascoli. Talvolta schivo, spesso si sottraeva agli impegni o al giogo degli orari, ma sapeva anche darsi delle scadenze, essere preciso, perfino puntiglioso. Gilberto era un universo di relazioni, di contatti con chi scriveva, con chi suonava, con chi si cimentava in vari campi artistici al di fuori dei poteri e delle istituzioni. Ma negli ultimi anni aveva imparato anche a pescare, all’interno di ambienti ufficiali che un tempo rifuggiva, quei sussulti meno retrivi, quelle corde che potevano aiutare un certo underground ad emergere senza per questo perdere in potenza e autenticità..
Gilberto era intelligente, puro ma anche scaltro, coerente ma anche tattico, generoso, tollerante ma anche iracondo, severo, duro.
Indimenticabili il suo sorriso a testa bassa e bocca serrata ed suo sguardo terribilmente ironico ed appassionato.
Carla Castelli